LE DONNE, IL MITO DELLA MADRE, L’IMPRESA

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psicanalista, direttore dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Le donne in quanto tali non esistono, salvo per chi le identifica con il genere femminile. Tuttavia, la paura della morte postula una presunta fonte dell’immortalità nella generazione e assegna la differenza alle donne come genere, una differenza che si tradurrebbe in inferiorità rispetto agli uomini. Nella Generazione degli animali Aristotele ritiene che l’organismo femminile sia imperfetto e debole rispetto a quello maschile, in quanto “l’animale femmina non è fisiologicamente in grado di portare a termine la cozione del sangue – e da qui le mestruazioni come dispersione –, che invece il corpo maschile realizza pienamente, trasformando il sangue in sperma, grazie al calore vitale che gli è proprio”. Così, Aristotele ritiene il contributo maschile il vero responsabile della generazione: “È lo pneuma contenuto nello sperma a indurre attivamente nella costituzione materiale del nascituro l’eidos”. L’uomo è sostanza che dà forma, eidos, alla materia inerte della donna. Quante implicazioni ha avuto e ha ancora oggi questa dicotomia (materia inerte-spirito animatore), che ha ispirato la filosofia fino a Hegel, per il quale la storia, l’arte e la materia finiscono, a vantaggio dello spirito, unico depositario dell’immortalità? Per non parlare di coloro che si considerano appartenenti al cosiddetto sesso debole e, prima di compiere uno sforzo, cercano l’uomo che possa infondere in loro lo spirito?
Dare forma a una materia presunta inerte è anche ciò che spesso sta alla base dei programmi di formazione nell’impresa. È emblematico che, nella Silicon Valley, chi fa i colloqui con i futuri collaboratori cerchi di capire quale contributo può dare ciascun giovane, anziché partire dal presupposto di dovere formare una materia inerte a una funzione preesistente.
Soltanto con l’invenzione della psicanalisi da parte di Sigmund Freud e della linguistica da parte di Ferdinand de Saussure, interviene la constatazione che la materia del dire non si lascia manipolare, ma è quanto di più irriducibile c’è nella parola. Parlando, qualcosa cade, qualcosa sfugge, qualcosa provoca lapsus e incidenti. Come farne un sistema, un insieme in cui le parole starebbero in attesa di chi possa padroneggiarle? La materia impedisce che il dire si risolva nel detto, nulla è fisso, identico, immobile, inerte, tanto meno la materia. Niente e nessuno è da formare o da creare da parte del Pigmalione di turno, né le donne né i giovani, in vista di una corretta trasmissione genealogica.
Con la cifrematica, la differenza non è più da ascrivere alle caratteristiche soggettive, ma è differenza da sé del significante, e anche differenza che procede dalle cose che si fanno secondo l’occorrenza. Se precede la parola e il fare, la differenza è la base del razzismo e di ogni slittamento verso la classificazione degli umani secondo i principi di selezione ed elezione, quindi diviene differenza tra bianchi e neri, italiani e tedeschi, uomini e donne, e così via. Pertanto, risulta differente, quindi incomprensibile, chiunque non si situi dalla parte del gruppo dominante. Dalla caccia all’ebreo alla caccia alle streghe, alla caccia al malato mentale, il fondamento è sempre lo stesso, quello della differenza come discriminante che precede il fare. Purtroppo, nella rappresentazione della differenza nel diverso, ciò che non si comprende viene significato come negativo, tanto che il male e la malattia vengono identificati come ciò che non rientra nello standard. In questo senso, la differenza sarebbe il negativo come non funzionale al conformismo, all’uguale sociale, al cerchio della comunità, pertanto alla gestibilità e governabilità degli umani. Per questo le donne, considerate segno della differenza, ad Atene erano escluse dal governo della città.
La differenza che procede dal fare, invece, è quella che indica ciò che resta, è differenza temporale. Il verbo differire, dal latino dis-fero, vuol dire “portare lontano” e “portare in altro modo”. Ma fero vuol dire anche produrre, per cui, facendo, produciamo e, in questo senso, c’imbattiamo nella differenza temporale.
Lontano dalla mitologia delle Parche – dove la prima filava il filo della vita, la seconda lo svolgeva assegnando un destino a ognuno, la terza lo tagliava –, la cifrematica introduce il mito della madre come mito del tempo che non finisce. Facendo, nessuno può rappresentare la differenza temporale e non occorre essere uguali, comprendersi, per instaurare un dispositivo in cui le cose si fanno e giungono al valore. Con il mito della madre, il tempo non finisce e la madre non uccide, anche quando dice: “Io ti ho fatto, io ti disfo”. Con la cifrematica, la madre è indice del malinteso indissipabile, quindi dell’impossibilità di manipolare e plasmare la materia, ma anche di significare la differenza e di attribuire alle parole il bene e il male. Come hanno notato le autrici del libro Madre materia, Silvia Campese, Paola Manuli e Giulia Sissa, madre ha lo stesso etimo di materia: mater. In questo senso, la pretesa di togliere il malinteso è matricidio, morte della materia della parola, perché pretende che ci sia almeno qualcuno, la madre, che tutto comprende, in quanto depositaria della funzione madre, di chi potrebbe dare e togliere la vita.
Non c’è funzione madre, le cose non significano e nulla è prima, dietro o sotto la parola, contrariamente a quanto credevano gli inquisitori del Martello delle streghe, Heinrich Institor e Jakob Sprenger, che cercavano il male dietro le parole delle donne che confessavano di essere state possedute dal demonio. Con la loro confessione, quelle donne cedevano al primato della genealogia, tentando di darsi un’identità, di attribuirsi un essere, una sostanza che a loro era negata in quanto considerate materia inerte. Che nessuno debba più darsi un’identità per instaurare dispositivi di parola e di riuscita è la scommessa delle donne nell’impresa del secondo rinascimento.