PER L’IBRIDAZIONE INTERNAZIONALE DELLE IMPRESE

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Come avevamo anticipato nel n. 46 del nostro giornale, TEC Eurolab in gennaio ha inaugurato il suo laboratorio a Shanghai, ma i vostri incontri in Cina sono incominciati già da qualche anno. Quali sono le impressioni di viaggio di un imprenditore come lei, che ha sempre considerato il capitale intellettuale prioritario per l’impresa che punta al valore assoluto?
Ecco, appunto, parliamo di impressioni: la prima è che la “cultura del lavoro” è uno dei pochi vantaggi competitivi che abbiamo rispetto ai cinesi. La cultura del “lavoratore italiano medio” è superiore a quella del “lavoratore cinese medio”. Ma anche l’ingegnere italiano medio ha una professionalità maggiore di quella mediamente riscontrabile nel collega cinese. In Cina non mancano eccellenti sedi universitarie ma non sto parlando delle eccellenze, sto parlando delle medie, e come cultura media l’impressione, mi lasci dire “la realtà”, è che siamo ancora superiori. 
Mi è poi stato fatto notare come gli ingegneri cinesi non amino troppo frequentare i reparti produttivi, preferendo carriere manageriali. Pare esserci uno scollamento tra gestione/direzione e produzione. Manca ad esempio il ruolo che in Italia, per tanti anni, e speriamo ancora in futuro, è stato dei periti industriali: tecnici preparati che costituiscono un collegamento prezioso, fondamentale, tra gli uffici tecnici e i reparti produttivi che devono trasformare i progetti in prodotti. Penso che gli amici cinesi non tarderanno a rendersi conto, e forse l’hanno già fatto, dell’importanza della cultura media del lavoratore. Ma, se venisse annullato questo gap culturale e anche i loro lavoratori, come i nostri, iniziassero ad appassionarsi al lavoro, a sentire orgoglio e senso di appartenenza, cosa sarebbe di noi? Se non riprendiamo a progredire, la situazione sarà molto grave. Impareranno, acquisiranno da noi anche cultura del lavoro e, con le materie prime e la supremazia finanziaria di cui dispongono, il rischio sarà che, semplicemente, non avranno più bisogno di noi. Diventeremmo solo un mercato e tra l’altro poco interessante in quanto piccolo e formato prevalentemente da anziani con mediamente scarsa disponibilità di spesa.
Progredire significa investire in ricerca, ma come possiamo farlo con aziende di piccole dimensioni e con margini risicati dovuti anche a uno Stato che si prende ben oltre il 50 per cento dell’utile d’impresa?  
Questa è la mia riflessione: momentanea tranquillità nel constatare l’attuale divario culturale medio e quindi penso che di noi “abbiano bisogno”, ma preoccupazione per un futuro a medio termine, anche in considerazione del fatto che il nostro livello culturale medio non si percepisce affatto in crescita; ma qui si aprirebbe un lungo discorso.
Spesso, per affrontare il problema della piccola dimensione delle nostre imprese, si fa appello alla costituzione di reti…
Il problema dimensionale è estremamente rilevante, e non si può risolvere con la sola crescita  rapida (magari avessimo la “crescita rapida”), perché, almeno nel mio caso, non basterebbe neppure che si attestasse al 20 per cento per dieci anni per raggiungere dimensioni paragonabili a quelle del mio maggior competitore cinese. Ecco perché occorre trovare forme di ibridazione, costruire reti vere, e non fittizie, o aprire il capitale sociale ad aziende più grandi, già internazionalizzate, e magari investire il ricavato in altre aziende. Credo che lo scenario del piccolo imprenditore stia rapidamente cambiando: sono cambiate le regole del gioco, adattarsi o morire; magari dopo lunga agonia.
Non si tratta di vendere le nostre imprese e ritirarsi ma di ibridarle con altre, per avere orecchie e occhi in Cina, negli Stati Uniti, in Brasile, in India, in Sud Africa, in Turchia, ecc. Con un’azienda di settanta persone questo, per quanto mi riguarda, è impossibile.
Quali opportunità si aprono quando un’azienda piccola o media si ibrida con una grande azienda internazionale?
Ci si trova proiettati in uno scenario nuovo e ricco di opportunità. Se l’acquisizione è frutto di una valutazione per cui la grande azienda, che già opera su scala globale, riscontra nel patrimonio intellettuale e tecnologico della piccola la possibilità di apportare valore aggiunto ai suoi servizi/prodotti, ecco che il mercato della ex-piccola, che inizialmente era dimensionato su scala nazionale o addirittura locale, acquisisce un respiro internazionale, mondiale; e questa è una meravigliosa prospettiva, soprattutto per persone talentuose che abbiano voglia di crescere.
Ancora una volta la sfida, sia per l’imprenditore sia per i suoi collaboratori, è culturale: rinunciare al controllo totale della piccola azienda non già per ritirarsi ma per giocare una partita diversa, una partita che si gioca con regole nuove. Se sapremo impararle in fretta e adattarci, nel mondo continuerà a esserci spazio per le nostre imprese, per le nostre tecnologie, per i nostri lavoratori, per il nostro paese che, mi preme dirlo, è proprio un Grande Paese, e senza l’apporto della nostra cultura, dei nostri uomini, del nostro modo di fare impresa, il mondo sarebbe più povero. Una nostra impresa in Cina, come in ogni altra parte del mondo, fa bene all’Italia e fa bene al paese che la ospita.