OLTRE IL PUNTO DI NON RITORNO

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ingegnere, amministratore di SIR, Modena

Il sistema Italia sta vivendo da anni un lento, inesorabile, declino: le cause non devono però essere semplicemente attribuite ad una crisi economica sempre più grave. Quest’ultima rappresenta semmai l’effetto di una serie di macro disfunzioni che hanno portato la nostra nazione ad una situazione di stallo destinata a degenerare, con il rischio di gravi tensioni sociali. Negli altri paesi della Comunità Economica Europea, a parte i casi ben noti di Grecia, Spagna, Portogallo, persiste una consapevolezza della propria nazionalità, un senso di appartenenza, un orgoglio diffuso nel perseguire gli obiettivi necessari al superamento della difficile congiuntura. Questo in Italia non accade: il lassismo, la rassegnazione e l’accettazione degli accadimenti come fossero pura fatalità hanno ormai spento il cittadino italiano. Tutto questo è partito da lontano: per capire dove siamo ora, vanno analizzati gli ultimi 30-40 anni di storia di una nazione abbandonata e tradita da tutti, e soprattutto da noi stessi. Per decenni abbiamo permesso che l’Italia fosse governata da una classe politica che ha sperperato sistematicamente il denaro pubblico mese dopo mese, anno dopo anno, portando il paese vicino alla soglia della bancarotta. Abbiamo concesso loro di creare posti di lavoro fittizi, utilizzati per acquisire consensi nelle campagne elettorali, abbiamo permesso che si generasse un malaffare diffuso, una spirale senza fine costituita da privilegi irrinunciabili e da leggi create con il solo scopo di autoproteggersi. Il denaro dei cittadini è stato gettato al vento per opere inutili, mentre la spesa pubblica assumeva proporzioni sempre più macroscopiche e incontrollabili. È incredibile come questa spirale abbia lentamente avvolto tutto e tutti nel suo vortice discendente, trascinando l’Italia da nazione ricca a paese in forte recessione, degradando il benessere di ognuno di noi e avvicinandoci alla soglia della povertà. Così abbiamo dovuto inchinarci, senza poterci opporre, a una serie di soprusi e violenze che hanno minato il nostro orgoglio e il nostro amor patrio: medici compiacenti che hanno concesso facili pensioni a migliaia di falsi invalidi, legislatori che hanno creato enti inutili dove parcheggiare amici e parenti e regalare loro una buona retribuzione, dipendenti statali sempre più inefficienti che piano piano sono scivolati nella più totale mancanza di competitività e nella completa estraneazione da quello che è il mondo reale, sindacati ultraprotetti che hanno imposto il loro volere senza minimamente considerare le reali regole di un mercato che esige sempre di più e dà in cambio sempre di meno. La mafia, la camorra, la malavita in genere si sono sostituite allo stato in molte regioni, senza che questo abbia destato troppe preoccupazioni. Le nostre banche, anziché finanziare le imprese sane dotate di concreti progetti di sviluppo, hanno preferito puntare sulla roulette della finanza creativa, bruciando così centinaia di miliardi e mandando in fumo i risparmi che i cittadini avevano accantonato in una vita di duri sacrifici al fine di garantirsi una vecchiaia dignitosa e assicurare un futuro migliore ai propri figli. È ben noto che tutto il cataclisma che ha colpito il mondo economico abbia preso origine dagli Stati Uniti, ma non bisogna mai dimenticare che il comportamento degli istituti finanziari italiani è stato quantomeno poco etico: per anni, funzionari senza scrupoli si sono dedicati a vendere ai risparmiatori prodotti finanziari scadenti, al fine di sbarazzarsene, spacciandoli come l’ultima frontiera del risparmio, il modo migliore per guadagnare in modo facile e sicuro. In sostanza, ci hanno raggirato. Chiaramente anche nel mondo privato vi è del marcio, se consideriamo il perdurare congenito del male dell’evasione fiscale o l’esistenza di molte aziende che vivono e sopravvivono solo per merito di continui finanziamenti nazionali ed europei. Ma va detto che in questo quadro fosco e decadente, che ricorda tanto il declino che caratterizza una civiltà prossima alla sua fine, l’unica speranza è alfine rappresentata dal mondo produttivo, dai veri imprenditori ancora capaci di scommettere e di rischiare, perché spinti, a differenza dei governanti, non dall’avidità ma da un sentimento che viene da dentro. Questo sentimento si chiama voglia di crescere, di costruire qualcosa di cui andare fieri e orgogliosi. Ma il mostro tentacolare della politica ha ben pensato in questi decenni di avvolgere nel suo abbraccio mortale anche la parte più positiva del nostro sistema produttivo: ecco quindi il continuo e sistematico spolpamento delle imprese, la crescita esponenziale di regole, leggi, divieti e norme atte a impedire alle aziende di mantenere la propria flessibilità e la propria capacità di reazione, ingredienti necessari per assicurarsi la competitività nel mercato globale. Che, ci teniamo a sottolinearlo, non guarda in faccia a nessuno. O ci si adegua alle sue regole, e in tal caso si potrà quantomeno sperare in un futuro decente, o si precipita nel terzo mondo. E ora ci meravigliamo se le imprese più rappresentative e prestigiose del made In Italy vengono vendute a colossi stranieri o se gli stessi imprenditori trasferiscono la produzione all’estero, dove si può produrre a costi più bassi e con norme che non impediscano ai lavoratori di svolgere le proprie mansioni, e li accusiamo di tradimento verso il suolo natio. Ma i traditori non sono forse altri? Non sono forse i governanti e tutte le sanguisughe che hanno goduto del Grande Imbroglio e che hanno spillato a questo sistema fino all’ultima goccia di sangue? Non sono forse coloro che ci hanno perseguitato aggiungendo tasse su tasse senza porre rimedio a sprechi e inefficienze? O che, incapaci di comprendere l’importanza della libera impresa come creatrice di benessere diffuso, l’hanno abbandonata a se stessa, uccidendola e spingendo il sistema a un tale livello di malessere da portare numerosi imprenditori, negli ultimi mesi, al suicidio? O che infine ha spinto le aziende che lavorano per il settore pubblico al fallimento, a causa dei tempi biblici, a volte superiori ai due anni, con cui vengono regolati i pagamenti per le prestazioni effettuate? Ci eravamo illusi, negli ultimi tempi, che partiti e sindacati avessero finalmente compreso che stavamo implodendo su noi stessi, scivolando giù fino a toccare il fondo, e che era necessaria un’inversione di rotta netta e traumatica per evitare l’inevitabile: la povertà che caratterizzerà il nostro domani. Per un attimo abbiamo vissuto nell’illusione d’intravedere una luce, là in fondo al tunnel della confusione e del bengodi. Ma l’illusione è durata poco: il nuovo governo si è immediatamente adeguato alla nostra misera tradizione di legislatori, agendo nel modo più inefficace in cui si poteva pensare di agire. Questo modo si basa su una semplice equazione, che noi tutti conosciamo: se non ci sono soldi perché sono stati sperperati, allora basta chiederli ai cittadini e alle imprese. Ma questa volta le tasse introdotte saranno davvero fatali per il tenore di vita di un popolo già martoriato nella sua capacità produttiva e nella sua volontà di risparmio. Si è preso di mira il bene rifugio dell’italiano, quello per cui tutti lavorano per una vita: le abitazioni. Così facendo, non solo si è provveduto a mettere in ginocchio la cosiddetta classe medio/bassa, ma si è ottenuto anche il risultato di spegnere un settore, quello edile, che già era in crisi da alcuni anni, facendo evaporare migliaia di posti di lavoro. Gli addetti di questo settore non faranno altro che aumentare a dismisura la già problematica schiera dei lavoratori in cassa integrazione, con l’aggravante che molti vivranno ora sulle spalle dei pochi rimasti a produrre qualcosa. Senza considerare che in un futuro ormai prossimo, questi cassaintegrati diverranno veri e propri disoccupati. Per mesi abbiamo assistito a discussioni su come rendere più snello il mercato del lavoro, su come attirare investimenti dall’estero, su come facilitare le assunzioni, per consentire alle imprese di guadagnare quote di competitività, le vere e uniche azioni remunerative nella borsa del futuro. Ma il compromesso che alla fine è stato raggiunto è estremamente deludente per tutti noi: la montagna ha partorito un topolino. Perché, stavolta, occorreva davvero agire in modo diverso, estirpando le erbacce dal giardino della repubblica, prima che potessero soffocare le poche piante rimaste. Invece di spolpare cittadini e imprese, si doveva attaccare in modo deciso lo sperpero, chiudendo gli enti inutili, togliendo le pensioni ai falsi invalidi, pretendendo che venisse restituito allo stato il mal tolto, riportando al lavoro i fannulloni che godono di un’occupazione a vita nel pubblico impiego, applicando finalmente l’unica regola con cui in tutto il mondo, tranne che in questo paese, vengono decise le assunzioni, i licenziamenti, le promozioni: la meritocrazia. Si dovevano ridurre drasticamente i costi della politica, eliminando le provincie e gli altri enti pubblici adibiti al facile parcheggio di amici e parenti, mettendo infine sotto controllo la spesa. Si dovevano scrivere nuove regole affinché gli istituti bancari divenissero un vero strumento di sviluppo, imperniato sulla definizione di un rapporto onesto e trasparente con il cittadino e le imprese. Si doveva rendere snella ed efficiente la giustizia, punendone la spettacolarizzazione. Com’è possibile avere fiducia in un organismo che pone il cittadino e le imprese nella condizione di attendere cinque, dieci o addirittura quindici anni per ottenere giustizia? Tutto questo crea un danno enorme e scoraggia qualsiasi investitore che abbia una minima volontà di fare impresa in questa martoriata Italia. In un momento di estrema emergenza, occorreva dismettere i beni non strategici di proprietà dello stato ed eliminare qualunque spesa estranea alle funzioni fondamentali dello stesso, ad esempio facendo rientrare le nostre truppe dalle zone di guerra, evitando di sperperare una quantità enorme di denaro in operazioni che non sono capite dal comune cittadino, impegnato quotidianamente a fare quadrare il bilancio familiare. Forse noi cittadini avremmo provato un senso di sollievo se la classe politica avesse deciso di eliminare tutti i privilegi: in tal modo ci saremmo sentiti sulla stessa barca, e saremmo stati spronati a lavorare con entusiasmo per risollevare le sorti del nostro paese. Invece proprio in questi giorni scopriamo che i finanziamenti ai partiti sono di quattro volte superiori alle spese effettive, attestandosi a livelli scandalosi se raffrontati alla media degli altri stati europei, e che questo immenso fiume di denaro, frutto dei sacrifici di ognuno di noi, viene assorbito da singoli individui e sperperato senza il minimo rispetto. Oppure scopriamo che, in un momento di estrema emergenza in cui tutto il popolo sta tirando la cinghia, lo stato sperpera milioni di euro per dotare ogni deputato o senatore non di una, ma di decine di agende in pelle a testa. Cosa succederà ora, si chiedono in tanti? Credo che non sia necessaria la consulenza di un professore della Bocconi per capirlo: le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e saranno ancora più evidenti fra qualche mese. La produzione inevitabilmente rallenterà, molte aziende si troveranno sul baratro della chiusura, i consumi si contrarranno perché i cittadini dovranno impiegare il loro denaro per pagare tasse sempre più esose. Le poche imprese sane rimaste cercheranno di trasferire la produzione all’estero e gli investitori fuggiranno in altri paesi caratterizzati da una burocrazia più semplice e da un costo del lavoro più basso. È stato innescato un circolo vizioso che ora sarà difficile arrestare: una minore produzione implicherà un picco esponenziale della disoccupazione, che in assenza di cambiamenti radicali potrà giungere in due anni a valori prossimi al 15-20%, e un aumento della povertà, terreno fertile per il fiorire del malaffare. A sua volta, lo stato incasserà ancora meno nel lungo periodo, perché i cittadini e le imprese in grado di sostenere le richieste di un fisco sempre più asfissiante saranno in numero sempre minore. La fiducia nella politica scemerà ai minimi storici e non avremo più il denaro sufficiente per pagare gli ammortizzatori sociali, creando tensioni che ci porteranno lentamente e inesorabilmente verso la bancarotta e il disordine. Siamo seduti su una bomba a orologeria, che è destinata a scoppiare. Non abbiamo nessuna speranza di evitarlo, a meno che non si dia una brusca sterzata di volante, un cambio di rotta repentino ed epocale. Ma questo evidentemente non è stato capito appieno, né dalla gente comune, né da quegli stessi professori che, a fronte di una conoscenza solo teorica, ritengono di poter governare non una singola azienda, impresa già di per sé difficile, ma un intero paese. C’è bisogno di un reale cambiamento e non di un avvicendamento di teorici appoggiati dai soliti inconcludenti partiti. Ma la brusca sterzata non avverrà, perché non abbiamo dei veri leader, perché non vi sono le condizioni ma soprattutto la volontà per farlo. Il Prof. Monti, nel novembre scorso, ci ha terrorizzato enunciandoci chiaramente la drammatica situazione in cui siamo sprofondati: adesso ci viene a raccontare che siamo in leggera ripresa. Questo non corrisponde a verità: ora ci troviamo in una zona di pericolo estremo, molto più che a novembre. Perché? Perché le misure che i professori ci hanno propinato vanno in controtendenza con lo sviluppo e la crescita, mortificando i consumi. I risultati che cominciamo a intravedere sono solo l’inizio di ciò che accadrà. I professori ci assicurano che non esiste alcuna “ideona” per risolvere il problema Italia: la verità è che non vi sono nemmeno idee piccole, o meglio non sussiste alcuna idea, visto che, come sempre, si è pensato solamente ad aumentare le tasse. Proprio a causa di questa cronica incapacità di ricercare soluzioni efficaci, i nostri politici e professori non sono più riconosciuti come leader in grado di guidare il paese: l’antipolitica è un sentimento che sta prendendo sempre più piede e che prima o poi chiederà il conto. Non esiste in Italia un vero leader capace d’inquadrare con chiarezza la situazione, fornendo ai partiti, ai cittadini e agli imprenditori la giusta ricetta per curare questo malato in fase terminale. Perché sia accettata da tutti, tale ricetta deve permettere a tutti d’intravedere oltre l’orizzonte del breve termine il delinearsi di un vero cambiamento. Probabilmente sarà necessario un evento traumatico, quale la bancarotta, per purificare questa società malata. Morire per risorgere può essere il concetto chiave del nostro prossimo futuro: solo così tutti ricominceranno a fare la propria parte, spazzando via il vecchio e lasciando che il nuovo prenda il sopravvento. Ho sempre pensato che l’ingegno, la capacità di adattamento, l’inventiva, la fantasia di questo popolo ci avrebbero sempre tirato fuori dai guai. Ma ora si avverte nei cittadini e negli imprenditori un senso diffuso di sfiducia. Tutti quanti sentiamo che il paese non è in mani sicure e non riusciamo a intravedere alcuna luce in fondo al tunnel. Siamo guidati a vista, nella tempesta, senza programmi e senza una meta: è questo l’elemento più devastante.