NON C’È PIÙ VITTIMA

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psicanalista, direttore dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

"E fai pressione sull’organo femminile principale”, consiglia don Giovanni al frate innamorato, per affrontare il primo incontro con Anna, nella pièce di Anatolij Krym Il testamento del donnaiolo illibato (Spirali), la cui pubblicazione ci dà occasione per questo incontro (La scrittura della felicità, Modena, 15 novembre 2012). “Beh, quel loro organo principale le donne lo tengono nascosto sotto gli abiti, e indossano una decina di sottane orlate di merletti”, si schermisce il frate. “Imbecille!”, tuona don Giovanni, “L’organo femminile principale è l’orecchio! Su questo devi fare pressione! Il segreto sta nel fatto che la donna effettivamente protegge le parti più seducenti del proprio corpo, pensando che il pericolo si nasconda proprio lì. Solo le orecchie rimangono allo scoperto. E sono loro la porta segreta per entrare nella fortezza inespugnabile”.
I colpi di scena si susseguono ad arte in questa pièce di uno dei più importanti scrittori e drammaturghi di lingua russa, che fa del più grande donnaiolo della storia un uomo addirittura illibato. Ma è soprattutto l’umorismo, che ha le sue radici nella cultura ebraica dell’Autore, a far sì che niente possa essere preso realisticamente. Anche la sessualità è intellettuale, non è né sostanziale né genitale, non significa il rapporto sessuale, l’erotismo o la procreazione: don Giovanni sottolinea la centralità dell’orecchio quasi a indicare che la sessualità è nella parola. Parola originaria, dove non c’è nessun rapporto fra gli umani, né di amore né di odio.
Con la fluidità di una lingua semplice, Anatolij Krym pone l’accento sulle cose che si dicono e dicendosi si fanno, senza alcun appello alla sostanza come ciò che starebbe sotto e darebbe loro significato. Che cos’è l’amore? Chi ama veramente? Ha amato le donne con le quali si è intrattenuto don Giovanni, che in punto di morte confessa di non avere mai commesso i peccati di cui lo si è accusato per tutta la vita? E chi ama Nina, la badante “speciale” protagonista della Clandestina, la seconda pièce contenuta nel libro, contesa fra due uomini mentre è in Italia e fra altri due quando torna in Ucraina?
Anatolij Krym non ci consegna personaggi con le idee chiare e distinte, tutti d’un pezzo, buoni o cattivi. L’equivoco, la menzogna strutturale e il malinteso sono intoglibili nelle conversazioni dei suoi personaggi. E il bello della narrazione, in queste due pièce, come nei Racconti intorno alla felicità ebraica (contenuti nel precedente libro edito in Italia da Spirali), sta nella costante sorpresa che l’Autore regala al lettore, attraverso l’imprevedibilità delle cose che si dicono e si fanno, nell’assenza di stereotipi di qualsiasi tipo, per cui le cose non sono mai o bianche o nere e ciascun personaggio giunge al caso di qualità. Anatolij Krym dà testimonianza della cifra di ciascuno dei suoi personaggi, che quindi smettono di essere tali, di essere mere rappresentazioni.
Così Nina non è una semplice clandestina con tutte le doti di alcova che le vengono attribuite, ma un nome, ingovernabile e impadroneggiabile, nella parola, per esempio per gli uomini che la corteggiano. Ecco come risponde a Mario, che si dichiara innamorato, anche se non potrebbe mai lasciare la famiglia in Italia per seguirla in Ucraina: “Perché ingannarci, Mario? Tu non sei mio. Pensi che per una donna sia importante com’è il suo uomo a letto e quanto guadagna? Ti sbagli, per lei conta molto di più prenderlo sotto braccio e passeggiare lentamente lungo il corso principale della sua città. Perché il cuore le balzi in petto e gridi: guardate, lui è mio! Solo mio! È questa la vera felicità!”. Le parole di Nina sembrerebbero riecheggiare quelle di don Giovanni quando spiega al frate perché le donne che aveva fatto “volare” ce l’avessero tanto con lui: “Sai chi ha inventato la tratta degli schiavi? Le donne. Ogni donna vuole che colui che le ha insegnato a volare appartenga a lei sola. Ma ogni uomo vuole insegnare a volare a quante più donne possibile”. Eppure, nessuno crede che Nina voglia rendere un uomo schiavo, se per essere felice le basta che lui passeggi con lei nel corso principale della città. Le parole di Nina sono graffianti non per una qualche verità che esprimerebbero, ma per l’immagine che dipingono proprio in quel momento, quando occorre uno sforzo intellettuale per rispondere a Mario, senza accettare o ribellarsi alle sue accuse di amante geloso, che si è pentito di averla portata dall’amico che gli aveva chiesto un aiuto per guarire dall’impotenza. Non è facile rispondere senza dire sì o no: occorre, come fa Nina, non cedere dinanzi alla difficoltà della parola e non pretendere di dire ciò che si pensa o di pensare ciò che si dice, come raccomandava Machiavelli. Nessuno capisce se Nina ami Nesmelyj o Kostja o nessuno dei due o entrambi, li esorta a non parlare d’amore e, quando Nesmelyj non vuole accettare che lei, dopo avere scelto di vivere con Kostja, si trasferisca da lui per salvarlo dalla galera, perché “manca l’amore”, “Oh Signore!”, sbotta, “Mi avete stufata col vostro amore da stalloni. (Grida) Ti amo, ti amo! Ti amo più della vita! O sei cieco?”. E quando Nesmelyj obietta: “Allora perché hai deciso di vivere con lui?”, lei conclude caustica: “Una donna non vive con chi ama, ma con chi le fa pena!”. Impossibile attribuire il vero o il falso a ciò che dice Nina, impossibile situarla rispetto all’amore o all’odio, che in questa pièce restano intransitivi e originari, senza alcun omaggio al sentimentalismo delle canzonette.
Come le donne non si ritenevano vittime di don Giovanni, anzi, ciascuna voleva che egli appartenesse solo a lei, così Nina non assume mai il ruolo di vittima e, nonostante sia alla ricerca disperata della figlia, non indossa mai l’abito della mater dolorosa, non accetta la pena, per questo trova il mito della madre come mito del tempo che non finisce, il tempo come divisione, anziché lamentarsi perché deve dividersi fra gli uomini che si dichiarano innamorati di lei.
Senza l’idea di fine del tempo, allora, tanto don Giovanni quanto Nina sono emblemi di una felicità che non ha nulla a che fare con l’edonismo e con l’ideale del benessere, lo stato ideale, ma procede dalle cose che si fanno e si concludono ciascun giorno, senza i rimandi, le remore e le riserve di chi si rappresenta e rappresenta l’Altro come vittima.


**L'articolo di Anna Spadafora è tratto dal dibattito dal titolo La scrittura della felicità, intorno ai libri di Anatolij Krym pubblicati da Spirali, che si è tenuto il 15 novembre 2012 a Modena.