COSA EVITARE PER AVERE SUCCESSO IN CINA

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Siamo un’azienda piccola, con una sessantina di persone e un ruolo importante nel miglioramento di prodotto, di processo e d’innovazione per aziende dei settori aeronautico, aerospaziale, dell’automotive e della meccanica in generale, e siamo, per competenze, tra i primi in Europa per avere conseguito tutti gli accreditamenti, compresi quelli per svolgere attività nei settori dell’aerospazio e della difesa.
Nel 2011, abbiamo avviato un processo d’internazionalizzazione in Cina, a Shanghai, che proprio in questo periodo sta vivendo il suo epilogo negativo. La mission dell’iniziativa era quella di fornire servizi di testing, su materiali e prodotti, alle aziende italiane con stabilimenti produttivi nell’area di Shanghai. Molte di queste erano già nostre clienti in Italia per gli stessi servizi e quindi abbiamo pensato che non dovessero sussistere eccessive difficoltà nel riproporre lo stesso modello in Cina.
Le cose non sono andate proprio così e la maggior parte degli errori commessi sono ascrivibili a un’analisi non corretta o approssimativa del segmento di mercato di riferimento e degli aspetti culturali, sociali, economici e finanziari che condizionano ogni fase del modello di business. E dire che sarebbe bastata una banale considerazione: dato un modello di business funzionante in un determinato contesto, non lo si può esportare in un altro senza rimettere in discussione i parametri che lo caratterizzano (segmento di mercato di riferimento, valore proposto, canali di distribuzione del valore, modalità di relazione con i clienti); senza dimenticare di riesaminare le risorse necessarie, le attività chiave richieste, le partnership che si rendono indispensabili nonché le condizioni e le regole del sistema economico e sociale in cui si intende proporre il valore.
Per entrare nel merito delle difficoltà, facciamo qualche esempio. In luglio 2011 abbiamo costituito la società in Cina, in settembre abbiamo spedito a una banca locale il capitale sociale concordato con le autorità cinesi. Poiché però la banca ha messo a nostra disposizione quanto versato solo mesi dopo, cioè a fine novembre 2012, abbiamo accumulato un ritardo molto pesante, perché era impossibile operare senza moneta in un paese in cui i pagamenti avvengono contestualmente.
Nel frattempo, le aziende italiane in Cina stavano incontrando un particolare problema di liquidità: molte avevano utilizzato l’ottimo andamento avuto in Cina nel 2010-2011 per salvare aziende italiane in profonda crisi. Così, è venuto meno quello che pensavamo potesse essere il nostro mercato.
Considerando la situazione, abbiamo pensato di chiedere un finanziamento, ma abbiamo dovuto fare i conti con un mercato del credito totalmente differente: in Cina i finanziamenti sono a sei mesi, non a cinque anni, per giunta con un tasso che si aggira al dieci per cento.
In breve, ci siamo accorti che il business plan era sbagliato, abbiamo preso in mano la situazione e abbiamo fermato tutto, in attesa di capire che cosa fare. Paradossalmente, in questi mesi stiamo lavorando con la Cina, offrendo servizi di elevato valore tecnologico nell’ambito delle tecnologie di saldatura, dei controlli non distruttivi e delle ispezioni su prodotti e processi.
Quindi stiamo servendo la Cina, partendo da Campogalliano, e non c’era bisogno di andare a Shanghai. In definitiva abbiamo sbagliato la value proposition, il tipo di servizio proposto in loco. Solo dopo abbiamo capito che in Cina richiedono tecnologia, competenza e formazione tecnica di alto livello. Poi avremmo dovuto chiederci, anche, quale fosse la catena di distribuzione del valore.
Facciamo l’esempio di un’azienda italiana, in cui lavora un manager italiano, con un laboratorio di controllo qualità interno dove lavorano venti persone cinesi, diretto da un ingegnere cinese. Questo laboratorio si serve già di un laboratorio cinese e c’è un rapporto diretto di fiducia tra l’ingegnere, cinese, dell’azienda italiana e gli ingegneri cinesi del laboratorio. Come potevamo intrometterci in questo rapporto di fiducia? Non bastava dire che siamo amici del general manager. Se in Italia e in Europa è sufficiente dimostrare di poter offrire un servizio più professionale, con un valore aggiunto maggiore, in Cina no. La sostituzione del laboratorio cinese con un fornitore italiano avrebbe rovinato una relazione tra persone che collaborano da anni, e i cinesi tengono particolarmente alle relazioni, al fatto di essere in armonia, in sintonia con un gruppo di persone, in cui c’è reciproca fiducia. Guai a interrompere il sistema di relazioni (guanxi) fissato da regole sociali non scritte che attribuiscono fondamentale importanza alle componenti della “faccia” (non a caso il cinese ha ben due termini per indicare la faccia: lian, la reputazione dell’individuo che deriva dal suo status sociale, e mianzi, quella che si acquisisce con l’operare quotidiano ed è proiezione dell’immagine pubblica del concetto di lian). “Perdere la faccia” e, peggio, “far perdere la faccia” è cosa da tragedia personale.
Quindi, il minimo che possiamo dire è che la prima causa d’insuccesso sia stata di natura culturale. Allora, oltre a studiare il modello di business, occorre confrontarsi con altri attori protagonisti di quel modello, conoscere gli aspetti che regolano i rapporti con i portatori d’interesse (le autorità locali, le banche, i lavoratori), non limitarsi a ciò che si conosce del mercato, ma aprirsi ad altre esperienze e collaborazioni, vivere la cultura del posto.
Devo però fare riferimento a un’altra componente di questo insuccesso: la solitudine del piccolo imprenditore.
Il Sistema Italia non sostiene in alcun modo il processo d’internazionalizzazione della piccola impresa e, per di più, non c’è un gioco di squadra tra le nostre aziende. Sappiamo che in Italia l’imprenditore, soprattutto se piccolo, è abituato alla solitudine, ma a dodici ore di aereo questa solitudine risulta terribilmente amplificata.