L'ANORESSIA INTELLETTUALE E L'INACCETTABILITÀ DELL'ERGASTOLO

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La lettura del capitolo La strada della salute del libro di Sergio Dalla Val, In direzione della cifra. La scienza della parola, l’impresa, la clinica (Spirali), è occasione per esplorare diverse questioni partendo dalla straordinaria elaborazione cifrematica intorno all’anoressia. Il discorso occidentale, in assenza di ascolto e di attenzione al caso particolare, presume di sapere già e ritiene che l’anoressia sia mentale, malattia mentale soggettiva. Leggiamo: “Così l’anoressia viene patologizzata, cercata e rappresentata dalla psichiatria nelle donne che ne assumerebbero il segno, che sarebbero soggetti della sostanza, proprio rifiutandola, in una padronanza alternativa a quella socialmente ammessa. Padronanza di (non) mangiare, padronanza di (non) vivere” (pag. 216).
Allora, anziché gettarsi nella caccia alle streghe, occorre anzitutto ascoltare, chiedersi in ciascun caso quale sia l’obiezione enunciata. L’anoressia rifiuta la sostanza, e in questo modo formula una fortissima obiezione al discorso occidentale che sulla sostanza si fonda. Tuttavia, in assenza di elaborazione e di analisi, l’anoressia viene negata e rimane mentale opponendo alla sostanza un rifiuto sostanziale. Non si coglie che la sostanza non esiste, e così la si rifiuta, come scrive Dalla Val, in una padronanza alternativa a quella socialmente ammessa. Alla padronanza sul mangiare e sulla vita imposta dal discorso occidentale l’anoressia mentale oppone la padronanza di non mangiare e la padronanza di non vivere. La chance di questa radicale opposizione è l’intendimento della logica della parola, del non dell’avere e del non dell’essere, l’elaborazione dell’anoressia come istanza intellettuale, non il ritorno all’accettazione della sostanza auspicato dalla psichiatria. Scrive Dalla Val: “Cominciammo a discutere di anoressia agli inizi degli anni ottanta, con vari convegni a Milano e un corso a Bologna, cui parteciparono anche alcune ragazze che non volevano più essere considerate soggetti patologici. Non ne volevano sapere, non ne volevano, di sapere sostanziale. Nelle domande, anche nelle obiezioni, emergeva l’anoressia in quanto istanza intellettuale, istanza di non accettazione della sostanza e della morte. ‘Non mangio più’, ma anche ‘non voglio più’, ‘non penso più’, ‘non scrivo più’, sono enunciati che indicano il venire meno della necessità che ci sia un soggetto del cibo, del pensiero, del fare, dello scrivere. L’anoressia in quanto intellettuale ci risultò allora non la prova del soggetto o della sostanza della parola, ma la base stessa della parola, ciò su cui si staglia la parola senza più bisogno di soggetto o di sostanza su cui fondarsi. Verdiglione definì l’anoressia intellettuale come lo stagliamento della parola, come virtù del principio della parola, per cui la parola non può essere padroneggiata. Nessuna intellettualità, dunque nessuna scienza, impresa, scrittura, ma anche nessuna cifrematica, senza questo principio della parola che esclude l’accettazione della sostanza, di ciò che sembra una tentazione verso la via facile, comoda, diretta” (pag. 217).
E ancora: “L’anoressia non cede alla tentazione sostanziale. Di qui il teorema dell’anoressia intellettuale: non c’è cedimento. Lacan scriveva che occorre non cedere sul desiderio, ma se l’anoressia investe ciascun aspetto della parola, occorre non cedere su ciascun aspetto essenziale della vita. Chi cede anche solo su un aspetto dell’esperienza, cede ovunque” (pag. 217).
Questa affermazione testimonia la forza straordinaria apportata alla nostra vita dall’anoressia intellettuale. Nella mentalità ordinaria si crede che le diverse attività svolte nella giornata siano fra loro indipendenti, se non addirittura alternative e in competizione fra loro, così, con l’approssimarsi di una scadenza o con l’apparente accumularsi degli impegni, si cede alla selezione, si taglia e si rinuncia, si esclude l’Altro. Senza l’anoressia intellettuale, c’è infatti chi crede che i diversi dispositivi di vita debbano costituire i filamenti di una fune intrecciata, la cui tenuta generale è garantita anche se alcuni fili dovessero cedere. Ma in questo modo si introduce un’alternativa alla riuscita che invece, come nota Dalla Val nel capitolo L’economia e la finanza, è assicurata dal rischio, dove nulla viene lasciato perdere perché ciascuna cosa occorre. E neppure si può ritenere che i dispositivi della giornata costituiscano una catena, limitata in resistenza dal più debole di essi. Se si intende la logica della parola non esiste anello debole. I dispositivi sono funzionali uno all’altro, si rilanciano nel progetto e nel programma di vita procedendo dall’apertura, dalle relazioni, dalla rete,investiti dall’anoressia intellettuale: “La tentazione che partecipa dell’anoressia intellettuale è la tentazione intellettuale, che disturba la padronanza, che non si limita alla mentalità, che non accetta le facili tentazioni che mirano a tagliare corto e grosso per puntare ai risultati, senza la logica e l’itinerario, per poi mancarli. […] Non c’è cedimento, né cessione, né concessione. Quell’indomabilità che Ginette Raibault e Caroline Eliacheff considerano tipica dell’anoressia non è da considerarsi una virtù soggettiva, ma una virtù della parola: indomabile è l’istanza pulsionale. E cedere sulla pulsione equivarrebbe ad assumere la morte come sostanza”(pag. 218).
I dispositivi procedono dalla maglia e nella parola si piegano. Non c’è assunzione di carico, contrariamente a quanto accade con la catena e la corda comunemente intese. L’itinerario procede per astrazione, avvalendosi della leggerezza perfino in campo militare, all’apogeo del discorso occidentale, discorso della morte: le innovazioni di difesa non sono più sostanziali, in metallo, quanto informatiche, di intelligence. Come abbiamo potuto ascoltare al convegno La materia intellettuale (Modena, 2011), si stanno inventando le armature liquide per la sostituzione dei giubbotti antiproiettile, mentre in campo edile il convegno La forza della leggerezza (Mirandola, 2012) ha portato testimonianza di come i rinforzi strutturali in fibra di carbonio siano estremamente più efficaci di quelli in cemento o acciaio, che appesantiscono la struttura. L’intervento secondo la logica non è mai nell’affrontamento diretto, ma lungo la piega della parola: “Il termine ‘immunità’ rimanda all’assenza di peso, di carico, e anche di esequie, di funerale (non munus): questione essenziale, perché l’immunità in questo senso sarebbe proprio ciò che il discorso medico evita quando dice che c’è un soggetto che deve farsi carico o a carico del quale qualcosa avviene o non avviene. E parla di presa in carico: ma se c’è la presa in carico, c’è il soggetto come carico, come peso, non senza peso” (pag. 220).
Con l’approccio intellettuale la salute è istanza di qualità, con effetti in ciascun ambito della vita e della civiltà. Quanto questa idea di carico, di colpa e di pena partecipa alle forme di esclusione sociale? Dal sistema carcerario all’internamento psichiatrico, la questione è esplorata nel libro L’uomo nomade di Jacques Attali, dal quale si evince come il discorso occidentale, discorso della stanzialità fondata sui cimiteri, veda sempre il segno della differenza nella rappresentazione dell’Altro, affrontato come pericolo e minaccia al sistema ordinario. A questo proposito nota Dalla Val: “La questione è che se l’Altro porta peso, carico e morte, l’immunità si risolve in precauzioni, fobie, tabù, isolamenti, che aumentano carichi e pesi a vantaggio dei cerimoniali” (pag. 221).
Scrive Voltaire che il grado di civiltà di uno Stato si misura dalla condizione delle sue carceri. E lo s’intende dato che le carceri e i manicomi sono considerati immondezzai della società, i non luoghi in cui recludere le problematiche, senza ascolto, con l’idea della colpa e della malattia mentale da cui la società dev’essere mondata. Quanto è feroce l’esclusione sociale? Questione particolarmente incalzante in Italia, dove lo Stato anziché essere sembiante, come inteso da Machiavelli, è esso stesso fuorilegge, e prevede la pena dell’ergastolo contro la propria stessa costituzione che all’articolo 27 comma terzo recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quale rieducazione, se si prescrive la pena definitiva, se la questione è chiusa e reclusa fino alla morte? La chiave che si sta buttando via è quella della civiltà. Come già è stato elaborato in Svezia e in altri Paesi, la morte bianca somministrata con l’ergastolo degrada la giustizia a vendetta sociale, senz’Altro. Ma l’istanza dell’anoressia intellettuale non consente di cedere a tale tentazione, alla risposta facile, al conformismo della legge del taglione, in nessun caso. Neanche per Anders Breivik, responsabile della strage di Oslo. Perché chi cede anche solo su un aspetto dell’esperienza cede ovunque, e cede rimarcando il fantasma sostanziale al quale vuole opporsi. Il terrorista ha infatti agito lungo quell’idea di pulizia e di omogeneità che trae origine dalla rappresentazione dell’Altro, rappresentazione del male da cui occorre liberarsi, rappresentazione di mostruosità che se ribaltata su di lui non fa che ribadirne il fantasma con il rifiuto sostanziale che caratterizza l’anoressia mentale.
Anoressia intellettuale si riscontra invece nelle parole di Carmelo Musumeci, laureato in legge, scrittore e giornalista, entrato in carcere con la licenza elementare e detenuto da vent’anni, condannato all’ergastolo ostativo per crimini di cui ormai nulla è riscontrabile nella sua persona. Autore di una raccolta firme per l’abolizione dell’ergastolo, nel suo blog denuncia: “Ci vuole tanta disumanità e cattiveria per far marcire una persona in cella per sempre, perché quando non si ha nessuna speranza è come non avere più vita. Continuare a detenere una persona quando non è più necessario è un crimine contro l’umanità, e una pena senza fine è una vera e propria tortura che umilia la giustizia e la vita”. Umilia la giustizia, degradandola a vendetta sociale, e nega la vita condannando alla morte bianca. Fra le lettere di solidarietà che Musumeci riceve da ogni parte d’Italia è interessante quella di una signora (21 ottobre 2012) che gli chiede di cercare strade alternative alla battaglia per l’abolizione dell’ergastolo, prega per la domanda di grazia e conclude con l’imperativo: “Carmelo, tu devi vivere”. Cos’è questo, se non l’approccio mentale all’anoressia, l’approccio comune che cerca di saltare la questione, chiede il compromesso e la resa? Ma l’indomabilità dell’anoressia intellettuale non consente alcun cedimento, non accetta le facili tentazioni senza la logica e l’itinerario, non si arrende a un presunto benessere. L’anoressia intellettuale esige la battaglia per la qualità. Così Carmelo ringrazia e declina l’offerta. Nota Dalla Val: “La salute non è il benessere, è istanza di qualità: sta nel ritmo, nei dispositivi, nell’impresa intellettuale di ciascuno; e la riuscita dell’impresa non consente evasioni, vie di fuga, alternative” (pag. 235).
Abolire l’ergastolo è una questione di civiltà, come lo è stata l’abolizione della pena di morte, e come cittadini della città del secondo rinascimento siamo chiamati a dare un contributo intellettuale e pragmatico a tale abolizione. Quanto l’elaborazione intorno alle tematiche carcerarie sia necessaria per la nostra salute, anche in relazione al discorso medico dominante, è sottolineato ancora da Dalla Val: “La questione è che, secondo Verdiglione, il discorso medico, in particolare negli ospedali e nelle case di cura, ha come bussola l’idea della pena, non della salute. E anche altrove scriveva che la medicina risulta penitenziaria perché per essa la malattia è la pena. È infatti il segno dell’umano, dell’umanità come mortalità, dunque della morte come pena. […] Il discorso medico è penitenziario perché si propone di aiutare gli umani a orientarsi nella pena e verso la pena, ci assiste in una vita fatta di espiazioni e di esorcismi. […] Compito demonologico e esorcistico, dunque, in cui torna il riferimento alla pena: ‘Il corpo che deve trionfare è il corpo sociale, sulla base del corpo sacrificale e del corpo penitenziario, il corpo fatto apposta per subire la pena’”(pag. 240).
Attenendosi alla parola originaria, che si staglia sull’anoressia intellettuale, occorre allora affermare che non esistono il corpo sacrificale e il corpo penitenziario su cui si fondano il discorso medico e la vendetta sociale che si fa chiamare giustizia. Per questo motivo invito a partecipare alla raccolta firme per l’abolizione dell’ergastolo, diffondendo l’iniziativa anche su questo sito. Per ragioni di salute, istanza di qualità.
Per firmare la petizione di abolizione dell’ergastolo, collegarsi al blog di Carmelo Musumeci:

http://www.carmelomusumeci.com/pg.base.php?id=12&cat=11&lang