NIENTE RIUSCITA SENZA SCOMMESSA

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Ognuno, non ciascuno, scommette a ragion veduta. E proprio perché vede, scommette sul probabile. È una scommessa che si rappresenta il bene, lo auspica, lo favorisce. E chi non scommette sul bene, il bene come economia del male? Anche chi scommette per perdere, come accade, scommette per il bene. Su un cavallo? Su un partner? Sul business del momento? È sempre una scommessa sulla padronanza, che afferma un dominio, è la scommessa del padrone sul servo presunto padroneggiare un sapere, quindi presunto vincere. Lo dimostra Socrate: cosa c’è di più probabile, cosa si può provare, meglio del sapere del servo?

La scommessa sul probabile si attiene al condizionale. “Farei se...”: il condizionale poggia sull’alternativa, è funzionale al rimando, all’attesa, compie l’economia della scommessa, che è l’economia della morte, procedendo dalla fine possibile. Il regno del condizionale è il regno della paura.

La scommessa dell’improbabile, in direzione della qualità, è la scommessa intellettuale, non la scommessa sul probabile o sul condizionale. Ciò che è probabile non è intellettuale, è ovvio, è normale, è prevedibile, è possibile. L’intellettualità è oltre il probabile, corre lungo l’improbabile, esige la scommessa dell’intelligenza e sull’intelligenza.

La nostra scommessa è scommessa sull’intelligenza. Il suo improbabile risulta inaccettabile per i parametri professionali e confessionali. È una scommessa sul valore intellettuale, non sul bene. È una scommessa pragmatica, è una scommessa poetica. Scommessa della poesia, scommessa del fare, scommessa dell’impresa. Non si rappresenta l’avvenire: lo limiterebbe, precludendosi ciò che effettivamente porta al valore, alla riuscita, cioè l’improbabile, l’impensabile, l’incalcolabile. La scommessa sul finito non è la scommessa sulla riuscita.

La nostra esperienza non è scontata, non può proseguire nell’automaticismo, nell’ovvio, nel già saputo, anche perché nessuna impresa potrebbe proseguire in questi termini. Ciascuna impresa corre il rischio dell’improbabile, non procede secondo le probabilità. L’ipotesi dell’impresa non condizionale e non ipotetica è ipotesi dell’improbabile, poggia sul rischio e sulla scommessa. Ipotesi di riuscita, ipotesi di luce.

L’ipotesi dell’impresa, la scommessa dell’impresa, la scommessa della riuscita. Per questo la riuscita esige un dispositivo: “Scommettiamo”. Impossibile dire: “Scommetto che…”, sarebbe la scommessa del soggetto, la scommessa del finito. Come indica l’etimo, il soggetto è l’ipotetico, è il sottoposto, in particolare alla fine. Il noi partecipa dell’infinito e la riuscita esclude la fine, esige l’infinito. Nessun infinito senza la scommessa, che dunque è nell’attuale, nel contingente, è attraversata dal tempo. Dire che la scommessa è difficile è già riportarla al labirinto, è già limitarla, renderla prerogativa del soggetto, anziché del tempo. Comporta pensare che potrebbe riuscire o non riuscire, come il soggetto.

La scommessa è dell’impresa, del suo ritmo, del suo dispositivo. Il dispositivo è imprescindibile per la scommessa, perché è il ritmo dell’impresa, è pragmatico, temporale. Ritmo, non congegno: con il dispositivo la scommessa va in direzione della qualità, è scommessa di cifra. Senza rispetto per la mentalità, di cui si nutre la burocrazia. La burocrazia è la paralisi dell’esperienza, comporta che – negati il fare, l’ufficio, il funzionamento – regni l’immobilismo, basato sulla lingua che Leonardo da Vinci chiamava legnosa. Perché la burocrazia è innanzitutto un problema di lingua: mentre la scommessa e la riuscita esigono la lingua della piega delle cose, con cui ciascuno intende nella propria lingua, la burocrazia è la lingua legnosa, che non fa una piega, fatta di stereotipi, di conformismo, di standard, di automaticismo.

La burocrazia è mentalista, la scommessa invece esige la mente. Questione di divisione, di misura, la mente, non di condivisione, cioè di mentalità. La mente, dunque l’odio, intransitivo e senza soggetto, l’odio che poggia sulla divisione, odio come indice che il tempo non finisce, dunque che non passa e non scorre. Non possiamo lasciare che le cose passino, cioè non possiamo vivere di passato, non possiamo pensare che le cose scorrano, cioè non possiamo vivere di ciò che è scorso: la nostra scommessa è in atto, in ciascun istante. Noi scommettiamo sulla riuscita, non sul bene, e non abbiamo alternativa alla riuscita. Prendere o lasciare: non cedere, non abbandonare, non mollare. Fra razionalità e lucidità, questa scommessa esige l’odio, il quantificatore della riuscita, non la condivisione, la complicità, l’intendersi. Per questo i dispositivi essenziali alla riuscita dell’impresa – dispositivi organizzativi, finanziari, amministrativi, di vendita – esigono l’odio intransitivo, che non consente che ci sia gruppo, sistema, chiusura, circolarità, che sono le forme con cui la soggettività impedisce la riuscita. E il dispositivo della riuscita per eccellenza è il patto, che poggia sull’odio, non sull’amore, esige le virtù non del soggetto ma dell’Altro: umiltà, generosità, indulgenza.

Offre la base per il dispositivo della riuscita il dispositivo narrativo dei romanzi di Serge Gavronsky, di cui in questo numero pubblichiamo alcune testimonianze di lettura. Una scrittura spaesante: chi parla non viene nominato, tra i personaggi non c’è il dialogo, caratteristico del romanzo ottocentesco e del best seller d’azione. Il racconto fluisce, con un effetto di depersonalizzazione, di dissipazione dei soggetti: la storia è costituita dal racconto, non dall’agire e dal parlare dei personaggi. “Ça parle”, direbbe Jacques Lacan, anziché “qualcuno parla”. Anziché il discorso di qualcuno, un dispositivo di parola. In questi romanzi ciascuno è convocato a intervenire dando il suo apporto narrativo alla saga, non mettendoci la propria soggettività.

Questo esige l’impresa, questo è il patto non volontaristico, non intersoggettivo, il patto come dispositivo della riuscita.