L’ACCIAIO, ULTIMO BALUARDO PER L’INDUSTRIA ITALIANA

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di Sefa Holding Group S.p.A., Bologna

S.E.F.A Holding Group, leader nel settore degli acciai, leghe di titanio e lavorazioni meccaniche su disegno, continua a investire nel territorio in cui opera da anni, nella convinzione che adesso si giochi la partita per il rilancio industriale del paese. Perché non c’è più tempo da perdere?

Se in Italia non facciamo rete, coinvolgendo il tessuto produttivo del territorio, le singole aziende andranno poco lontano, per questo è essenziale, per esempio nel settore degli acciai, offrire un servizio ben organizzato e all’avanguardia con prodotti di alta qualità.

Chi opera nel mercato nazionale oggi corre anche il rischio che si arresti il flusso della produzione e che riceva la richiesta di un concordato in bianco da parte di qualche cliente, come accade ormai sempre più spesso. In questo momento, inoltre, assistiamo al paradosso che, nonostante le banche siano disposte a dare credito agli imprenditori che presentano un progetto, le imprese più responsabili non accettano prestiti perché nel nostro mercato mancano prospettive per onorare l’impegno o non sembrano convincenti quelle esistenti. In Italia, le imprese operano in un tessuto produttivo inceppato a livello industriale. Il settore della distribuzione degli acciai, per esempio, sta soffrendo la carenza di volumi, a causa della chiusura di tante attività che utilizzavano prodotti siderurgici. Ecco perché diventa sempre più indispensabile un efficiente centro servizi che potrebbe costituire uno dei più importanti centri in Europa per lo smistamento dell’acciaio, dell’alluminio e di tutti i prodotti necessari alla trasformazione dei manufatti.

Cosa occorre perché ci sia un centro di questo tipo?

Il problema del nostro paese è che anche nel settore industriale, non solo in quello politico, ciascuno ragiona per sé. Manca la volontà di ragionare con il “noi” e vige la paura della concorrenza fra le nostre imprese. In questo momento occorre invece la capacità di mettersi in discussione.

Il risultato della chiusura dell’Ilva è che le nostre imprese sono di fatto succubi dei mercati esteri, ostaggio di importatori coreani o turchi. Stiamo perdendo una parte rilevante del settore della trasformazione di prodotti siderurgici, con la conseguenza che l’approvvigionamento di materie prime sarà estremamente complesso per le piccole e medie imprese sia per la carenza di liquidità sia per la logistica sia per i sempre più ridotti tempi di pagamento. Pertanto, occorrerà vendere il prodotto trasformato nel più breve tempo possibile per poterlo pagare, e questo strozzerà ancora di più il sistema produttivo.

L’ultimo baluardo del sistema paese Italia è l’acciaio. Senza acciaio non c’è tessuto industriale. In un futuro sempre più attuale la piccola impresa, molto laboriosa e competente, che oggi costituisce la maggioranza del tessuto produttivo, dovrà acquistare la materia prima dall’estero con le conseguenze che questo comporta, ovvero oneri di trasporto, sdoganamenti a cui le aziende non sono preparate e proliferazione di pratiche burocratiche che complicheranno ulteriormente i processi per l’approvvigionamento. Questo frenerà gli investimenti in tecnologia e l’assunzione di giovani da avviare al mestiere.

In che termini gioverebbe al territorio creare il più grande centro in Europa per la trasformazione dell’acciaio?

Per un settore del manifatturiero come quello degli acciai la materia prima è essenziale. Con una semplice telefonata il committente sa con certezza di ricevere nella sua officina alla data stabilita il prodotto che ha ordinato, sa con esattezza in termini di prezzo e di qualità quello che acquista perché sa che chi distribuisce svolge bene il proprio mestiere. Non acquista un materiale anonimo che arriva dalla Corea o dalla Cina dopo aver percorso diverse tratte. Inoltre, ha il vantaggio di incontrare chi ha competenze specifiche per dare consigli sul tipo di prodotto da acquistare e può seguirlo in tutte le fasi della lavorazione e del trattamento.

Perché l’Italia non investe sulla materia prima?

Perché non c’è la cultura del lavoro, ma una disaffezione verso chi lavora, verso chi trasforma, dunque verso il manifatturiero con il pretesto che inquina e disturba, soprattutto con il trasporto su strada. Il pericolo è dato dal fatto che la nostra società è gestita da chi rema contro questo tipo di sviluppo. La deindustrializzazione è iniziata con il rifiuto del nucleare per dare la preferenza alle attività del terziario, come intrattenimento e ristorazione, senza che però fossero integrate con il tessuto produttivo del paese. Il risultato è che oggi un kwh in Italia costa 0,153 centesimi di euro, in Germania e Austria 0,115 e 0,008 in Francia, grazie agli investimenti fatti nel nucleare. 0,153 centesimi di euro a kwh sono la conseguenza di una decisione presa quando le mamme scendevano in piazza contro il nucleare e pensavano che il futuro dei propri figli fosse garantito dalla laurea, così oggi abbiamo tanti laureati, fra cui molti avvocati e magistrati, impegnati nelle procedure fallimentari. Inoltre, ci troviamo nella situazione paradossale che investiamo nelle scuole e nelle strutture per la formazione dei nostri figli e poi i più bravi sono accolti dai paesi esteri che offrono maggiori opportunità di crescita.

Una piccola responsabilità di questo è anche degli industriali che hanno delocalizzato per primi. È chiaro che hanno avviato le fabbriche in tre mesi, portando via dall’Italia i loro migliori tecnici. È stata favorita in questi anni una rilevante emigrazione di cervelli. Conosco tecnici estremamente qualificati, che hanno nelle mani la storia delle industrie per cui lavorano e danno il loro contributo per avviare stabilimenti all’estero. In questi casi l’impresa offre benefit, che in quei paesi valgono oro, che consentono loro di comprarsi la casa e assicurarsi una pensione.

Sono però convinto che la subfornitura e il piccolo fornitore siano essenziali in questo paese e in questo momento e che non si possa fare a meno delle piccole e medie imprese. È una delle ragioni per cui l’Italia sta tenendo la rotta e le grandi industrie devono capire che, se non sviliscono i subfornitori, possono solo trarne vantaggio.

Dico questo perché la politica è sempre più quella di abbassare i prezzi fino allo stremo. Il subfornitore non è una mucca da mungere o da ridurre alla fame, ma un interlocutore con cui instaurare dispositivi da cui nascono i progetti. I grandi brevetti sono nati nei sottoscala, nelle cantine, da un lavoro artigianale magari svolto di notte. In ogni officina c’era un motorista che inventava un motore. Sono nate così la Ferrari e la Lamborghini, la Silicon Valley dei ciclomotori emiliani, in un contesto in cui l’invenzione era favorita, mentre oggi rischia di annegare nelle pastoie burocratiche, che demotivano imprenditori e artigiani, sfiduciati e senza speranze per i figli, persi nell’incertezza se rilanciare o svendere l’officina perché le prospettive sono scoraggianti. Questo paese ha umiliato la capacità di progettare, con la complicità di una politica che ha pensato a sistemare i figli e i figli dei figli, dimenticando che la loro prosperità è dovuta al lavoro di chi compie costantemente uno sforzo d’invenzione. Ecco perché non possiamo più aspettare e occorre subito una strategia da parte della politica e della grande industria.

Oggi, però si fa l’obiezione all’Italia che non può vivere di sola invenzione…

Chi fa questa obiezione dimentica che personaggi come Leonardo o Giotto sono nati nel rinascimento italiano che aveva avviato un contesto sensibile all’invenzione, creando un tessuto industriale a partire dal cervello. È adesso che occorre un secondo rinascimento nel paese e in Emilia Romagna. L’industria del packaging, fiore all’occhiello dell’Emilia, per esempio, è nata da un contesto produttivo che favoriva l’invenzione e si tramandava di padre in figlio. Il compito dell’industriale, oggi più che mai, è valorizzare i propri talenti, mettendoli a disposizione della società.

Cosa possono fare gli industriali?

Possono fare un esame di coscienza e chiedersi se la loro impresa fra cinque o sei anni sarà ancora così e cosa avrà perso. La questione politica è un pretesto, occorre invece che trovino lucidità perché una scelta sbagliata di oggi potrebbe essere un grande disastro per il paese e per i propri figli e nipoti domani. Ci vuole chiarezza e rispetto dei propri subfornitori, che per molti sono stati una fortuna, soprattutto per le generazioni dei nonni. Dal virtuoso rapporto fra subfornitura e industria sono nati i prodotti di eccellenza e l’alta tecnologia. Oggi, l’adagio mors tua vita mea non funziona perché la subfornitura è uno dei fondamenti dell’industria in Italia. È necessario consentire alle piccole aziende di ritornare ad avere le loro certezze, invogliandole a investire la liquidità che oggi il sistema bancario in parte sta restituendo per acquistare macchine e nuove tecnologie. Dobbiamo riuscire assieme, perché, se il piccolo fornitore utilizza macchine e tecnologie più performanti, anche l’industria è più competitiva e organizzata nel territorio.

Torniamo alla questione fondamentale delle materie prime…

Senza materie prime il paese non ha futuro. Il caso Ilva è indicativo del fatto che la maggioranza della popolazione gode dei benefici dell’impresa, ma non sa neanche cosa sia e cosa fa, non immagina che anche gli stipendi e le pensioni sono garantiti dal fatto che c’è ancora l’impresa che produce in questo paese e che, se chiude, finiscono anche i benefit per tutti. L’industria non è eterna.

Gli industriali o chi è disposto a fare grandi sacrifici non possono continuare a pensare che cedere alle proposte di acquisto o delocalizzare sia utile, se non nel breve termine. Quando il tessuto produttivo è ormai disgregato e sfilacciato, quando si fa fatica a trovare il saldatore o chi produce il bullone, ci si accorge che era vitale. Il funzionamento delle piccole e medie imprese è come una catena che olia il sistema, è quello che permette di riparare la catena se si rompe un anello. La grande impresa senza la piccola non va da nessuna parte e il nostro sistema produttivo ci è invidiato per questo, ecco perché c’è chi sta cercando di distruggerlo.

Se un operaio non ha lavoro, non serve togliere la tassa sulla prima casa. In Italia, il costo del lavoro è quattro volte superiore rispetto ad altri paesi, mentre è ormai evidente che dobbiamo andare in direzione di un privato sempre più forte piuttosto che di un pubblico che non si regge più.

Con la politica attuale, sono stati attaccati i tre pilastri fondamentali della cultura italiana: la cultura del risparmio, che è calato del 12/13 per cento (eravamo l’unico paese risparmiatore d’Europa); la cultura del mattone (la casa per un italiano era la sua vita); lo spirito d’iniziativa – le piccole imprese italiane sono nate dalla capacità di confrontarsi di singoli uomini, che hanno incominciato una sfida con se stessi e con i loro figli. È stato attaccato questo spirito costruttivo, che ha fatto sì che perfino in zone di montagna siano nate fabbriche di eccellenza. Anche per questo la grande industria non può più permettersi di mortificare le piccole imprese, ma deve averne rispetto e permettere loro di guadagnare: diversamente, muore il sistema paese e, prima o poi, anche la grande industria.