OCCORRE UNA RIVOLUZIONE CULTURALE NELLA FISCALITÀ

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presidente del Gruppo Termal, Bologna

Qual è l’apporto che l’impresa può dare all’uscita dalla crisi?

La crisi presente è una crisi dell’Occidente. È stata causata dal debito conseguente all’utilizzo di rilevanti quote di ricchezza spettanti alle generazione future. Questa ricchezza è andata in minima parte in investimenti e in massima parte nel miglioramento del livello di vita, ovvero nel Welfare. È quindi una ricchezza consumata, non più disponibile. Questa crisi si risolve pertanto riducendo drammaticamente il livello di vita o producendo in modo accelerato nuova ricchezza. Per questo l’impresa, che è un formidabile produttore di ricchezza, è destinata a essere l’attore principale per uscire dalla crisi.

Quali sono le nuove regole dettate dalla globalizzazione?

Il modello sociale occidentale ha visto delinearsi nel secolo scorso lo stato, come aggregazione fra i cittadini. Questo processo è però transitato fra nazionalismi e comunismi che hanno avuto sempre in comune la centralità dello stato e, tramite esso, la supremazia del collettivo sul singolo. Si è quindi formata una sorta di consacrazione morale delle azioni dello stato a prescindere dalla loro qualità, efficacia ed equità. Lo stato è quindi diventato l’attore principale dell’azione economica e si è formata una burocrazia potente che sovraintende a ogni processo, consolidandosi con la politica. Si è formata una vera e propria casta politico-burocratico-amministrativa, che perpetua il potere tramite la tutela delle proprie clientele per garantirsi l’appoggio nel processo elettorale. Per farlo necessita di sempre maggiore denaro da dispensare in aumento del welfare e spesso in favori e sprechi. Questo ha generato un doppio fenomeno: da una parte, un costante e progressivo prelievo di risorse dall’economia reale tramite la tassazione e, dall’altra, la formazione di debito a danno delle generazioni future.

Con l’avvento della globalizzazione e della conseguente esigenza di competitività assoluta fra le imprese, il re è nudo! Non c’è più spazio per balzelli e gravami ingiustificati: chi realizza il medesimo prodotto a un prezzo inferiore vende, chi non riesce è fuori dal mercato e la produzione migra verso i paesi che stanno al gioco rispettando le nuove regole. L’impresa, come capacità d’intraprendere e quindi di creare ricchezza, è diventata il centro del mondo. Se l’impresa è solida e sana, l’intera comunità prospera, diversamente, prende forma lo spettro del declino. In Italia purtroppo è molto difficile intendere questo nuovo fenomeno perché mina alla radice il sistema di governo e aggregazione sociale esistente.

Quali sono i termini della trasformazione?

L’equilibrio si trova mettendo in gioco tre protagonisti della nuova strategia contro la crisi: l’impresa, che ha il compito di produrre ricchezza in piena libertà; un nuovo sindacato flessibile e aderente alle peculiarità economiche locali, in grado di leggere le mille sfaccettature dello sviluppo e quindi di contrattarle in quanto obiettivo comune fra impresa e lavoratori, e uno stato che deve ridurre il suo intervento nell’economia ritornando all’originaria funzione di tutore delle regole.

Attualmente, però, siamo molto lontani dal realizzare questo nuovo assetto, considerando il fatto che chi governa ha imposto una serie di ruoli e impegni che l’impresa non ha e non deve avere, come per esempio il carico sociale che le è stato dato. Lo stato, influenzato dall’ideologia marxista, ha obbligato l’impresa ad avere una funzione sociale, per bilanciare una presunta funzione antisociale del profitto. Le imprese sono gravate da responsabilità sociali (come gli invalidi e le malattie) il cui costo dovrebbe invece gravare sull’intera collettività o quantomeno su modalità di tipo assicurativo. Le imprese sono oppresse dalla burocrazia, indifese di fronte alla voracità fiscale, limitate nella propria espansione da carichi normativi imponenti e impossibilitate ad agire con flessibilità sulla forza lavoro in caso di criticità. Il sindacato, politico e ideologico, sembra un residuato di inizio novecento, non mira a condividere gli sforzi per la formazione di nuovo profitto ma a suddividere quello già creato. Lo stato, con il proprio intervento diretto in economia e con il peso dell’enorme spesa pubblica, da esso controllata, altera il libero processo della concorrenza e la direzione dello sviluppo e quindi l’ottimizzazione dell’intero sistema economico. Laddove deve essere presente nel fissare con precisione regole e tutelarle tramite una rigorosa amministrazione della giustizia, è invece assente e lascia al sottogoverno burocratico clientelare e a volte corrotto le funzioni di guida del paese.

Il nuovo scenario competitivo esige una trasformazione radicale dell’intero sistema economico e sociale in Italia e in Europa. Al momento sembra invece che la strategia s’indirizzi nel voler colmare i debiti attraverso un attacco ai patrimoni, dimenticando che il risparmio è condizione necessaria per lo sviluppo e colpendo ulteriormente il ceto produttivo che ancora sta cercando di tenere in piedi il paese. Viene usato il fantasma dell’evasione fiscale per legittimare il prelievo di denaro nella presunzione d’illegalità.

Ma molti individuano nell’enorme evasione fiscale che caratterizza l’Italia il problema principale del pareggio di bilancio…

Mi piacerebbe tenere una serie di conferenze in Italia dal titolo provocatorio L’evasione fiscale non esiste. Io lo sostengo da sempre e adesso anche alcuni rilevanti esponenti del PD concordano: la maggior parte dell’evasione fiscale in Italia è per necessità. Il sistema produttivo italiano negli anni settanta è stato compresso da un potere sindacale soverchiante. All’impresa è stato negato uno dei beni più preziosi, la flessibilità, con un no deciso a straordinari, licenziamenti e produttività. È in quel periodo che si sono sviluppati il terzismo e l’artigianato industriale come strumenti di flessibilità esterna alle aziende, per dare loro certezze sulla produttività ovvero certezza di prezzo del prodotto o componente, certezza di consegna e flessibilità rispetto all’aleatorietà della domanda. Oggi quel “piccolo è bello” non ha più valore e la piccola impresa si trova a dover competere con scarse economie di scala, difficoltà nell’ottimizzazione, gravami burocratici esterni crescenti, impossibilità di sostenere ricerca e innovazione. Man mano che l’imposizione fiscale negli ultimi venti anni cresceva a dismisura, la microimpresa è riuscita a sopravvivere riducendo le proprie dichiarazioni. Di fronte a una richiesta di regolarità fiscale, questo insieme di piccoli non riesce più a compensare la propria scarsa competitività ed è destinato a chiudere oppure ad alzare il prezzo della propria produzione, costringendo il proprio cliente industriale a non riuscire a far fronte a propria volta alla competizione globale e quindi a delocalizzarsi.

Il dramma dell’incapacità fiscale della piccola impresa si legge anche negli innumerevoli suicidi a fronte dell’azione implacabile del fisco. Ma ci sono anche altri segnali a testimonianza che non siamo un popolo di evasori. Uno è il recente dato di reale riscossione del solo 8 per cento del totale accertato dall’Agenzia delle Entrate negli ultimi dieci anni. Rappresenta una controprova sulla reale consistenza, o meglio inconsistenza, del denaro “occultato”. Il secondo si legge sul sito del Ministero nella pubblicazione dei dati statistici sui redditi del 2011. I contribuenti italiani sono 41,3 milioni, ma il 27,3 per cento del gettito complessivo è a carico del solo 2,41 per cento della massa dei contribuenti, che diventa il 10,39 per cento per garantire il 52,81 per cento del gettito complessivo. La sorpresa è che questi grandi pagatori d’imposte sono i “ricchi”, ovvero quelli con un reddito lordo maggiore di 35.000 euro. Sono poco più di 4,3 milioni e questi paladini fiscali non sono i sempre “incensati” dipendenti, visto che nelle stesse statistiche emerge un reddito medio dei lavoratori autonomi e d’impresa in contabilità ordinaria superiore ai 43.000 euro, a fronte di un reddito medio dipendente di circa 20.000 euro. I rimanenti 37 milioni di contribuenti assolvono al 47,2 per cento del gettito e 9,7 milioni di costoro denunciano un’imposta uguale a zero.

Le partite IVA attive, escluso le società di capitali, sono circa 5,5 milioni: dunque, non è lì che si evade.

Il nostro sistema fiscale è fortemente orientato a modelli socialdemocratici e i redditi bassi sono molto agevolati, partecipando ben poco al gettito complessivo. Ciò avviene attraverso meccanismi di deduzione d’imponibile e detrazione fiscale. Il reddito complessivo dichiarato di 805 miliardi ha deduzioni d’imponibile per 30,9 miliardi e produce un’imposta lorda di circa 214 miliardi, ai quali si applicano detrazioni per 62 miliardi, pari a circa il 29 per cento dell’imposta dovuta. Queste detrazioni sono computate all’85 per cento per carichi di famiglia e lavoro dipendente a vantaggio dei redditi bassi. Da qui la sostanziale “esenzione” fiscale dei redditi bassi, per lo più pensionati e lavoro dipendente, e l’accanimento su quelli medio alti, per lo più impresa e ceto produttivo privato che oggi è allo stremo delle forze.

Quindi per lei l’evasione fiscale non esiste?

Certamente qualche evasore esiste sempre e va giustamente perseguito, ma non è questo il problema di bilancio del paese. Il concetto di evasione fiscale è poi solo una convenzione sociale. Se al ceto produttivo imprenditoriale vengono imposte aliquote fiscali reali molto alte e progressive, il fenomeno che spinge a ridurre questo gravame spesso economicamente insopportabile viene definito evasione. Se ad altre categorie sociali (come il mondo cooperativo) si applicano aliquote agevolate e quindi si riduce il carico fiscale, le minori imposte pagate, anche se l’entità complessiva fosse maggiore di quelle cosiddette “evase” dai piccoli imprenditori, assumono una funzione sociale. Queste imposte non pagate diventano “benedette”. In realtà parliamo di asportazione di quantità di reddito con modalità inique, ma legali, fra diverse categorie di contribuenti. Anche qui l’aspetto ideologico diventa preminente. Se poi guardiamo al mondo dei lavoratori dipendenti, che si delinea in un percorso salario-pensione, osserviamo che buona parte delle pensioni oggi erogate sono state calcolate con il metodo retributivo, ovvero vengono percepite pensioni che non hanno mai avuto un congruo corrispettivo di contributi versati. In pratica, un “furto” contributivo pienamente legale, anche in questo caso a vantaggio della categoria dei lavoratori dipendenti in quiescenza e a danno delle future generazioni, oltre che del ceto produttivo in attività. Così, da una parte, un’indebita appropriazione di contributi non versati diventa legale e, dall’altra, il mancato pagamento d’imposte, per lo più per incapienza reddituale, viene trasformato in un reato sociale. Questo sistema fiscale non regge e a ogni ulteriore aumento della tassazione, orientata verso il ceto produttivo, la caduta dell’economia sarà palpabile in tutti gli angoli della strada. Per uscire dalla crisi occorre invertire la rotta e incentivare fiscalmente la creazione di ricchezza. Esattamente l’opposto di quello che si sta facendo ora. Soltanto nuova ricchezza potrà colmare il debito e riportare prosperità. Chi produce ricchezza deve essere considerato un benefattore della società perché contribuisce a mantenere l’intero sistema sociale. Occorre innanzitutto una rivoluzione culturale nella fiscalità per cambiare decisamente passo.

La nuova frontiera è spostare il modello dalla focalizzazione sulla solidarietà verso quella proiettata sull’efficienza. Deve essere premiata l’efficienza, intesa come merito, e la capacità dell’uomo di produrre ricchezza, mentre va penalizzato sotto il profilo dell’imposizione fiscale il meno efficiente. Il merito non va demonizzato perché consente d’incrementare la ricchezza che poi lo stato potrà parzialmente ridistribuire. Inoltre, occorre modificare i criteri della contribuzione pensionistica per aprire il mercato ai giovani e incrementare la capacità produttiva del paese. Questa crisi del debito ha tolto ai giovani quello di cui le generazioni passate stanno ancora godendo anche attraverso le pensioni di tipo retributivo.

Quale dovrebbe essere l’intervento?

Non è compito dell’impresa trovare queste soluzioni, spetta alla politica. Tuttavia, sotto il profilo tecnico, non sarebbe difficile aprire nuove strade anche con modalità soft, che possano inizialmente coesistere con l’attuale errata impalcatura: per esempio, applicando una progressività negativa dell’imposta sulla base della comparazione con il reddito dell’anno precedente. Se dichiari più dell’anno precedente, il reddito aggiuntivo avrà aliquote sensibilmente inferiori a quelle previste. Più sarà la differenza quantitativa più le aliquote progressive calano. I contribuenti saranno stimolati ad avere redditi maggiori ogni anno, saranno stimolati a lavorare di più o a cercare lavori migliori, saranno stimolati ad aprire imprese o a investire di più come imprenditori. In questo modo, sarebbe incentivata la produzione di maggiore ricchezza, quindi si farebbero maggiori investimenti, dando avvio a un circolo virtuoso. È un provvedimento difficile sotto il profilo culturale, ma semplicissimo sotto il profilo tecnico. L’impatto sarebbe un ricostituente formidabile per l’economia.

Per i giovani invece si potrebbe applicare una contribuzione pensionistica progressiva sulla base dell’età. Con l’aumento dell’anzianità, le aliquote contributive aumentano, incidendo anche sulle pensioni di tipo retributivo già erogate. All’inizio della vita professionale, le aliquote contributive sarebbero bassissime, assicurando vantaggi nell’assunzione da parte delle imprese che, nell’immediato, vedrebbero incrementare la propria competitività in quanto l’incidenza del costo del lavoro sarebbe inferiore.