LA PARTICOLARITÀ DELLA VITA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Ringrazio gli organizzatori di questo incontro (La scienza della parola, la psicanalisi, l’arte: come riuscire vivendo, 16 maggio 2013, Macerata) e coloro che hanno dato testimonianza di lettura del mio libro, In direzione della cifra, La scienza, l’impresa, la clinica (Spirali). Macerata è una città straordinaria, che a buon diritto gioca la sua partita di città planetaria, in questa era in cui va dissipandosi la distinzione fra provincia e città, fra centro e periferia.

Dove stanno le cose? Dove stare? In città? In provincia? In Italia? All’estero? Un aspetto interessante della cosiddetta globalizzazione, nell’era della comunicazione planetaria, è la dissipazione della dicotomia tra centro e periferia, per cui nella parola e con la parola il centro non è più localizzabile. Anzi, nulla è localizzabile nella parola, che, a sua volta, non è localizzabile. Lo aveva già intuito Freud nel 1891 nel libro L’interpretazione delle afasie, dove afferma che, nonostante le aree di Broca e di Wernicke, nel cervello non può esserci un luogo di localizzazione delle afasie, dunque della parola. Così, oltre cent’anni dopo Freud, oggi l’editoria, le telecomunicazioni, internet confermano l’ipotesi dell’inconscio: la parola è planetaria, irriducibile a sistemi e a territori.

La parola è atopica, senza luogo. E non ha sede, non è padroneggiabile: questa la dissidenza che attraversa il pianeta. L’inconscio è dissidenza, non luogo, non campo. Dissidenza in quanto non è un sistema che si opponga al sistema conscio, ma è un’altra logica rispetto a quella aristotelica, una logica che non nega la contraddizione e non esclude il terzo. La dissidenza come particolarità della parola, come particolarità della vita, quando la vita non partecipa più del presunto sistema o non abbisogna più di sostanza. Stare al gioco e all’invenzione, stare nella partita della vita non ha bisogno di poggiare su qualcosa che stia sotto – sub-stantia –, sotto la ricerca o sotto il fare. La dissidenza non è il dissenso, (il cui etimo è sensus), che mantiene il senso come causa, fondando il consenso, il senso comune, il buon senso. Dissidenza deriva da dis-sideo (“siedo altrove”), etimo che indica l’inesistenza di localizzazione della sede. Altra cosa la delocalizzazione, con cui alcuni imprenditori pensavano di localizzare l’altrove per aggirare la crisi. Invece la crisi esige che il terreno dell’Altro su cui si gioca la partita sia qui e ora. Trasferirsi, andarsene, emigrare alla ricerca del luogo ideale? Sarebbe negare il contingente, sottolineato dalla crisi, in nome del possibile, che non riesce mai, perché evita la ricerca e il fare, esclude il rischio e la scommessa.

Il terreno dell’Altro: nessun campo del possibile, nessuno scampo dalla parola. Me ne vado? Parto? Smetto? Mi dimetto? Occorre proseguire, stare, restare. Stare al gioco e all’invenzione, attenersi al dispositivo: questo lo statuto non burocratico, stare al dispositivo intellettuale, quindi pragmatico, dispositivo della battaglia e di lotta. Proprio perché poggiano sulla dissidenza come logica particolare, la battaglia e la lotta non sono contro qualcuno o qualcosa, non sono l’opposizione, lo scontro, il conflitto, la competitività e i suoi limiti. “Chi si oppone perde la sua parte di mondo”, scrisse il poeta Rainer Maria Rilke. La battaglia e la lotta sono intellettuali, cioè non hanno bisogno di rappresentarsi e di presentificarsi la finalità: battaglia e lotta senza nemico o competitor, battaglia e lotta per la riuscita.

La nostra è l’era intellettuale. Noi non possiamo rappresentarci nulla, non possiamo stare a vedere, anche perché questa visione è sempre sottoposta al bene: bisogna vedere per non incappare nel male e per sapere che cos’è il bene. Questa visione, negando il contingente, impedisce il processo intellettuale, processo per integrazione, non per esclusione o per assimilazione, che invece è fondato sul ricordo. Lungo il gioco e l’invenzione, lungo il cammino artistico e il percorso culturale, il processo per integrazione ha dinanzi l’avvenire, non quel che è presunto passato o presente. Questa presunzione nega l’avvenire, lo presentifica sottoponendolo all’economia del male che consentirebbe di accettare o di rifiutare, di assentire o di dissentire.

“Le convinzioni sono prigioni”, scrisse Friedrich Nietzsche. I dissidenti russi, cinesi, iraniani, cubani hanno aperto una breccia che i regimi non sono riusciti e non riescono a richiudere. La dissidenza della parola non dissente, non rifiuta, non polemizza, non convince. È dissidenza intellettuale, più che degli intellettuali, i quali, soprattutto in occidente, fanno circolo, sistema, classe. La dissidenza è intellettuale perché non si rappresenta l’ostacolo nell’inciampo, la crisi nel male o nel bene, l’Altro nel nemico o nell’amico. Non comporta uno scontro di logiche, non è soggettiva, è la logica stessa: relazioni, identificazioni, funzioni, operazioni e dimensioni sono logiche della parola. Per questo la dissidenza è la base dell’impresa, della città, della politica che, lungo il gioco e l’invenzione, s’instaurano sul fare e si valorizzano con la scrittura del fare. Il fare è dissidente, l’impresa è dissidente, la città è dissidente. La civiltà si scrive secondo la dissidenza della parola.