LA MACCHINA COME INVENZIONE, LA TECNICA COME ARTE

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Agli albori del pensiero greco, Anassagora notava che l’uomo è il più intelligente degli animali perché ha le mani. Platone, nel Protagora, racconta della “perizia tecnica di Atena”, da cui Prometeo imparò l’architettura, la medicina e l’arte di lavorare i metalli, che poi insegnò agli uomini. E, secondo Omero, nelle navi dei Feaci “non ci sono timoni […], esse sanno il pensiero e la mente degli umani”, intuiscono da sole la rotta da seguire.

Nella poesia e nel mito dell’antica Grecia, i significanti mechanè (macchina) e téchne (tecnica) non alludono a meccanismi o a tecnicismi, ma a un’accezione d’invenzione e di arte in cui la macchina e la tecnica partecipano della parola, del racconto, fino all’intelligenza. Il meccanico, l’artigiano, l’intelligenza della mano, il manufatto, l’automazione. A quel tempo macchina e tecnica non erano permeate dalle idee di conoscenza e di padronanza, introdotte dalla filosofia platonica e da quella aristotelica, che precluderanno loro l’industria. La questione verrà riaperta a Roma dalla poesia, come in Lucrezio e in Ovidio, dal diritto, come in Cicerone, dal mito del cristianesimo, fino al Rinascimento, e oltre: le macchine disegnate da Leonardo da Vinci e la sua tecnica pittorica dello sfumato, le “macchine d’Amor”, di cui parla Torquato Tasso, l’opera matematica Quisiti et inventioni diverse di Niccolò Tartaglia, fino alla “gran macchina del Duomo”, descritta nei Promessi sposi da Renzo Tramaglino, alludono a congegni e congetture, a astuzie, a accorgimenti, alle strutture di opere architettoniche o narrative. Mentre la tecnica si preciserà non come conoscenza o come saperci fare, ma come cammino dell’arte, come articolazione, come gioco (non a caso i giochi enigmistici e quelli d’azzardo furono inventati nel Rinascimento). Negli autori rinascimentali l’industria non è il luogo del fare, ma la struttura della parola, tra arte e invenzione: “l’industria val più della natura”, notava Niccolò Machiavelli, e Leonardo scriveva della “artifiziosa natura”.

Ma la Riforma, l’illuminismo e il romanticismo hanno tolto la macchina, la tecnica e l’industria dalla parola e le hanno divinizzate, considerandole strumenti che portano alla realizzazione dell’homo faber come uomo della padronanza, uomo che crea e agisce, l’uomo d’azione, che “è” e “si ha nell’azione”, come scrive Carlo Sini nel libro L’uomo, la macchina, l’automa. “In principio era l’azione”, scrive Goethe. Fino a Marx, che nel Capitale è affascinato dal brano di Aristotele in cui gli strumenti e le macchine simili a quelle di Dedalo “che si muovevano da sé” potrebbero liberare l’uomo dal lavoro, e “il capomastro non avrebbe bisogno degli aiutanti né il padrone degli schiavi”.

Ma in tal modo la macchina diventa la rappresentazione dell’Altro nell’altro dall’uomo, Altro negato che risulta positivo o negativo, amico o nemico. L’idea di affrancamento dal lavoro si alterna al timore della sua perdita, alla paura che la macchina e la tecnica, divenute onnipotenti, possano sostituire l’uomo, risultare un pericolo per la sua esistenza, perché, per esempio, creerebbero disoccupazione o distruggerebbero l’ambiente. Nell’ideologia romantica, che pervade anche questo inizio del XXI secolo, la macchina e la tecnica possono sfuggire al controllo degli umani, si ergono minacciose contro il loro presunto creatore, come il Golem di Paul Wegener o il Terminator di James Cameron. Sono schiave o padrone? Sia la macchina sia la tecnica entrano nell’anfibologia: producono tutti i beni, procurano tutti i mali. Prometeo, colui che ─ secondo l’etimo ─ pensa prima, che porta le tecniche e il fuoco, ha ceduto il passo al fratello Epimeteo, colui che riflette in ritardo, che spande tutti i mali nel mondo, con la complicità della moglie Pandora.

Macchina cattiva, macchina buona. Tecnica che uccide, tecnica che salva, come vorrebbe Martin Heidegger nel saggio La necessità della tecnica, indagato da Carlo Sini in questo numero. Ma aspettarsi la salvezza dalla tecnica la demonizza, conferma la sua inscrizione nell’ideologia del riscatto, nella farmacologia occidentale (pharmakon, in greco, indicava sia il veleno sia il rimedio): demonizzazione della tecnica nel luddismo che la distrugge, demonizzazione della macchina nel futurismo che la esalta, perché, come dice Filippo Tommaso Marinetti “dà lezioni di ordine, di disciplina, di forza, di precisione, di ottimismo e di continuità”. Demonizzazione sempre in nome del progresso e del cambiamento, che negano il tempo in atto, il tempo nel fare, il tempo dell’impresa, per una macchina che dovrebbe risparmiare il tempo e per una tecnica che dovrebbe misurarlo, entrambe procedendo dall’idea della sua fine, per potere conoscerlo e dominarlo. Per questo le macchine e le tecniche del tempo sono macchine e tecniche contro il tempo, non favoriscono la memoria, la cancellano, non liberano il pensiero, liberano dal pensiero, non consentono il fare, lo riducono a impiego.

Quali macchine e quali tecniche, allora, se nella città del secondo rinascimento il criterio di qualità procede dall’apertura e dalla sua figura, la contraddizione insanabile, anziché dall’alternativa bene/male, funzionale alla chiusura? Quale automazione se la città è città del tempo che non finisce, città della memoria e non della conservazione, città del fare e non dell’occupazione? La macchina e la tecnica si combinano nell’industria, di cui si nutre l’ingegno, come aveva colto Cicerone. La città senza industria, trionfo della burocrazia, sarebbe la necropoli, pura spazialità senza tempo, abitata da soggetti automi, disposti alla depressione e pronti alla compressione. Gli stessi servizi non si oppongono all’industria, risultano intellettuali, se si attengono all’impresa, non alla sua demonizzazione: il tempo dissipa il servilismo perché, facendo, s’instaurano dispositivi di parola, organizzativi, produttivi, finanziari, che vanificano la dicotomia padrone/schiavo posta alla base del modo di pensare la macchina, la tecnica e l’impresa nell’occidente. Tempus faber, non più homo faber. L’automa è il tempo, nella combinazione tra macchina e tecnica. Per questo non ha più bisogno di antropomorfismo e di animazione, anche nel caso della marionetta del racconto di Heinrich von Kleist.

Cos’è più naturale? L’animale, l’uomo, l’automa? Mentre l’uomo è presunto padroneggiare la natura o dipenderne, distruggendo o proteggendo la terra, il tempo non le si oppone né la salva, la rende “artifiziosa”, artificiale, innaturale, industriale. Al De rerum natura di Lucrezio risponde l’annotazione di Niccolò Machiavelli: “Da cosa nasce cosa e il tempo la governa”. De rerum gestione: la natura non ha bisogno di essere salvata, la natura delle cose esige il tempo come automa, il governo dell’automa. L’ideologia del progresso fa una rappresentazione dell’uomo in perenne difetto rispetto all’automa, non viceversa. L’idea di uomo, con la sua natura umana che distrugge o salva la terra, è una finzione per rappresentare il tempo. Il tempo irrappresentabile assicura che la natura non finisce e trae la terra nella scrittura, nella geografia, la scrittura della terra. Questa scrittura non necessita più dell’uomo come creazione delle dottrine politiche e religiose.

Smart city? L’appello alla salute pubblica è ideologico, è un’idea per l’azione, per cercare di mentalizzare la città, presunta a misura d’uomo. Ma la città è intelligente per la sua automazione, per l’apporto della macchina e della tecnica nella sua gestione, come scrive nel suo articolo Giorgio Giatti.

“La macchina e la tecnica non si possono acquistare, sono l’invenzione e l’arte di un’impresa”, annota in modo felice l’imprenditore Paolo Moscatti in questo numero, sottolineando come macchina e tecnica siano la struttura dell’impresa, la sua memoria come struttura in atto. La macchina introdurrebbe nella civiltà l’inquinamento? La tecnica sarebbe la patologia della civiltà? La macchina come invenzione industriale, in cui il funzionamento delle cose impedisce che s’inquinino, e la tecnica come arte industriale, in cui la variazione delle cose impedisce che si ammalino, sono imprescindibili per la civiltà: la macchina e la tecnica strutturano la cultura come formazione e trasformazione (anziché come patrimonio soggettivo o di un gruppo) e l’arte come gioco e articolazione (anziché come creazione e revivalismo).

La modernità non è lo spirito dei tempi: nulla da scoprire, nulla da liberare. Nella modernità della città del tempo, la macchina non può togliersi, nemmeno dal centro, salvo sacrificare il percorso culturale in nome dell’evoluzione, e la tecnica non può finire, salvo sacrificare il cammino artistico in nome del progresso. Il museo Ferruccio Lamborghini, che presentiamo in questo numero, prova come la stessa automobile, che la burocrazia vorrebbe espellere dalle città, può risultare un’opera d’arte.

La macchina come formazione pone la questione “da dove vengono le cose?”, non quella della loro origine. La tecnica come arte insiste sulla questione “dove vanno?”, non quella della loro fine. Nonostante Hegel, che riteneva che la stessa arte dovesse finire. Da Platone a Hegel al luogo comune, la demonizzazione della macchina e della tecnica dipende dalla paura dell’invenzione e dell’arte, che risentono di un funzionamento inappropriabile e di un debordamento ineconomico. Il funzionamento delle cose, senza più risparmio, senza i limiti della soggettività, trae all’invenzione, mentre il bordo delle cose, senza più misurabilità, in cui la frontiera non è mai l’ultima, trae all’arte. Il percorso culturale e il cammino artistico sono i due aspetti dell’itinerario intellettuale, in cui l’automa non ha bisogno di giustificarsi o di umanizzarsi, ma è la base dell’avvenire e del divenire nel processo di valorizzazione.