LA MANIFATTURA DI QUALITÀ TORNA IN AUGE

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presidente di Officina Meccanica Marchetti S.r.l., Bologna

Non si può negare che l’Officina Meccanica Marchetti abbia fatto tendenza in quarant'anni nella lavorazione degli stampi per i settori medicale, elettronico e meccanico. In questo numero della rivista esploriamo la tendenza per l’avvenire della manifattura di qualità in Italia. Qual è il suo parere in proposito?
Negli ultimi tempi ha avuto notevole risalto la notizia che alcune scuole tecniche del nostro paese hanno siglato convenzioni con industrie del settore meccanico per la formazione integrata. Questa collaborazione nella formazione dei nostri giovani tecnici mi pare vada nella giusta direzione. Tuttavia, occorre fare alcune precisazioni, perché, come spesso accade, è il modo in cui vengono portati avanti questi progetti che farà la differenza. È interessante ospitare studenti delle scuole tecniche nelle grandi industrie perché è utile che intendano l’aspetto pragmatico e non solo teorico della tecnica, ma non bisogna dimenticare che è determinante fare pratica soprattutto nelle aziende dei sub-fornitori di quelle industrie, per avere un’idea chiara dei processi tecnici della produzione. Visitare reparti in cui si possono osservare, per esempio, telai già verniciati e pronti per essere montati, potrebbe essere didatticamente riduttivo. L’esperienza andrebbe vissuta facendo vedere com'è avvenuta la costruzione di quei telai. In altre parole, è importante far capire che dietro al marchio rinomato ci sono conoscenze tecniche, processi produttivi e lavorazioni specifiche anche esterne all’azienda, senza cui quel marchio non esisterebbe. 
È indicativo il modo in cui avviene la formazione nelle aziende tedesche. I ragazzi cominciano il percorso formativo nei reparti dove si realizzano le lavorazioni di base e solo alla fine arrivano ai reparti del montaggio. L’emozione di vedere i telai con il marchio stampato è conseguente, quindi, alla comprensione dell’intero processo produttivo che sta dietro al prodotto finito. Se questo non avviene, si rischia di dare un’idea errata del lavoro di produzione. Questa mentalità ha portato progressivamente l’opinione comune a considerare la manifattura come qualcosa di secondario e non necessario. 
La tendenza verso un ritorno alla manifattura in Europa è chiara, per questo anche in Italia, e soprattutto nel settore meccanico, va sostenuta la manifattura di qualità. Nei paesi in cui il costo del lavoro è basso, la manifattura non può essere di qualità. Non a caso si registra un ritorno in Europa delle aziende manifatturiere che in precedenza avevano investito in altri paesi. Sfortunatamente questa tendenza non è così evidente in Italia, che purtroppo non ha regole certe e non motiva chi vorrebbe investire qui. Nel Regno Unito invece, paese che non ha mai basato la sua economia sul manifatturiero, si comincia a investire molto nel settore, sostenendo gli imprenditori che decidono di tornare a produrre e, con questi presupposti, la manifattura sarà certamente di qualità. 
Inoltre, è da rilevare che anche i paesi che producono a basso costo stanno cambiando: la Cina, per esempio, sta registrando un aumento del costo del lavoro, per cui Bangladesh, Vietnam e Corea stanno diventando i nuovi fornitori di prodotti dai costi estremamente ridotti e dalla qualità discutibile. Le realtà più fortunate oggi sono quelle dei paesi che adottano una politica industriale intermedia fra la produzione di scarsa e alta qualità. Le aziende che fino a pochi anni fa producevano in Cina investono in paesi come la Polonia, dove la qualità del prodotto è migliore e il costo del lavoro leggermente più elevato ma ancora accettabile. Ci sarà sempre un paese in cui le aziende producono a un minor costo, ma sono sempre più gli imprenditori che hanno capito che non c’è futuro per produzioni scadenti. Paesi che hanno regole precise e chiare, come la Germania, l’Inghilterra e la Spagna, hanno già cominciato a raccogliere i frutti di questa tendenza. Purtroppo l’Italia paga l’assenza di una politica industriale che vada in questa direzione e il prezzo dell’ignoranza, talvolta voluta, dei problemi legati al mondo dell’industria. Quando un imprenditore ipotizza soltanto di avviare la produzione nel nostro paese, trova un contesto normativo poco chiaro, una tassazione altissima e una burocrazia schiacciante. Chi dirige imprese italiane che operano nella manifattura di alto livello e vorrebbe aumentare le proprie risorse sul territorio si scontra con logiche che impediscono di produrre. Sono tanti i casi di aziende che devono aspettare dieci anni per ottenere il permesso di ampliare un capannone, così diventa una vera battaglia proporre la realizzazione di un progetto innovativo, con impedimenti da ogni dove, mentre le cause legali durano anni, impantanate in una giustizia che non riesce a dare risposte immediate. Tuttavia, i segnali incoraggianti non mancano. Il settore manifatturiero sta tornando al centro delle politiche industriali, perché si è capito che un paese non può vivere solo di turismo o di prodotti agroalimentari, ma deve puntare sulla manifattura di qualità, che realmente può creare reddito e occupazione. 
Purtroppo, la produzione manifatturiera di alcuni settori è stata intesa come dannosa per l’ambiente…
L’aumento della produzione non necessariamente coincide con un aumento dell’inquinamento. La ricerca tecnologica è sempre più avanzata; mi pare invece che non giovi all’ambiente la moltitudine di enti pubblici in Italia, che danno risposte spesso contrastanti anziché collaborare per risolvere i problemi. Spesso, infatti, ciò che per un ente risulta idoneo non lo è per un altro. Nel settore ambientale, per esempio, l’azienda che vuole espandersi spesso non sa come comportarsi perché manca una regolamentazione chiara. 
Nella nostra azienda, per esempio, abbiamo installato una macchina automatica di fabbricazione svizzera, con un determinato dispositivo di sicurezza. Quel dispositivo che in Svizzera era idoneo non lo era in Italia perché chi avrebbe dovuto certificarlo non aveva competenze tecniche in materia. Così abbiamo dovuto sostituire una parte del dispositivo della macchina per adeguarlo alle normative vigenti nel nostro paese. La questione rasenta i limiti dell’assurdo per un’impresa che deve confrontarsi con la produzione mondiale: se un dispositivo è valido ed è certificato in un paese rigoroso come la Svizzera, dovrebbe essere riconosciuto valido anche in Italia. Così risulta che l’efficienza delle nostre aziende è inferiore a quella di altri paesi, per problemi puramente burocratici e per carenze di conoscenza tecnica dei macchinari da parte di chi è preposto al controllo della loro sicurezza. 
L’Italia è piena di casi come questo. Circa quindici anni fa fu emanata una legge secondo cui chi aveva impianti di elettroerosione avrebbe dovuto chiuderli in una gabbia di Faraday perché si pensava, senza alcun dato scientifico che lo provasse, che generassero emissioni elettromagnetiche troppo elevate. L’acquisto di queste gabbie ha comportato una spesa non indifferente. Solo un anno dopo si è scoperto che i rischi paventati erano inesistenti e le emissioni elettromagnetiche di quegli impianti in un giorno di lavoro erano inferiori a quelle di un apparecchio televisivo in funzione per un’ora.
In altri casi può accadere che all'interno dello stesso organismo di controllo vengano emessi giudizi differenti sulla medesima questione. La valutazione dei Vigili del Fuoco per la prevenzione degli incendi consiste nel rilascio di un documento, il DPI, attestante che l’azienda ha adottato i provvedimenti necessari per ridurre al minimo il rischio di incendi nelle proprie strutture. La nostra amministrazione ha rinnovato per anni questo documento, finché ho deciso di avvalermi della consulenza diretta dei Vigili per avere una nuova valutazione, dal momento che avevamo rinnovato l’impiantistica. Un loro incaricato, dopo aver eseguito il controllo, ha ritenuto che avremmo dovuto compiere una serie di modifiche nel corso di tre mesi per essere a norma. Abbiamo seguito alla lettera le indicazioni fornite e dopo tre mesi abbiamo ricevuto un altro incaricato deputato al controllo della sicurezza, il quale ha rilevato che non c’era niente che fosse in regola e ha indicato ulteriori modifiche da apportare. Ovviamente abbiamo risposto che ci eravamo attenuti alle prescrizioni del tecnico precedente. Il nuovo perito ha continuato a sostenere il suo verdetto e ha dato altri tre mesi di tempo per attuare le modifiche. Fortunatamente, allo scadere dei tre mesi, l’incaricato che ha sottoscritto la nuova valutazione era lo stesso che aveva effettuato la visita precedente e di conseguenza non poteva dire che altri avevano sbagliato. 
È possibile che accadano cose del genere? A distanza di tre mesi, due preposti alla sicurezza, che fanno lo stesso lavoro, hanno sottoscritto due cose diverse e, nel frattempo, noi abbiamo speso qualche migliaio di euro e impiegato mesi del nostro tempo per modificare gli impianti in modo da essere in regola. Ho riportato solo un piccolo esempio, ma immaginiamo cosa accadrebbe se un’azienda volesse ingrandire le sue strutture o realizzare determinati impianti, quando è sempre più urgente far ripartire il comparto manifatturiero in modo che sia efficiente e di qualità.