L’IDEOLOGIA AMBIENTALISTA E LA CITTÀ

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avvocato, scrittore di diritto urbanistico

Nel dopoguerra, le città italiane hanno cambiato volto per effetto dell’ideologia ambientalista e della cultura urbanistica statunitensi. Nel 1968 è stata introdotta la pianificazione urbana per standard, che prescrive, tra l’altro, l’individuazione, a corredo delle nuove costruzioni, di ampi spazi destinati a verde privato e pubblico e altri usi pubblici. La quantità minima di tali spazi era stabilita dal Decreto Ministeriale del 2 aprile 1968 in 18 metri quadrati per abitante, ma le Regioni hanno in generale ben superato il minimo: in Emilia Romagna siamo arrivati a 30 metri quadrati per abitante. I Comuni a loro volta hanno spesso ingaggiato una gara di qualità ambientalista, innalzando ulteriormente le dotazioni a livelli privi di connessione con la realtà. In questo modo si sta verificando una corsa sfrenata all’edilizia rada, di influenza anglosassone. Si può ricordare che Tacito, nell’opera I germani, afferma che i germani non tolleravano di vivere in case che avessero muri in comune col vicino e nemmeno di abitare in villaggi che ne avessero un altro a portata d’occhio. Del resto Franck Lloyd Wright ha teorizzato “Broadacre city” e la perfezione di una residenza totalmente sconnessa dalle altre, anche visivamente. Negli Stati Uniti sono previsti lotti minimi anche di 1,2 ettari di superficie.
A causa del problema del deturpante abusivismo nelle nostre coste meridionali, la legge Galasso, nel 1985, ha sottoposto a vincolo paesaggistico tutti i terreni fino a 150 metri dai fiumi e a 300 metri dal mare, non vietando le nuove costruzioni, ma sottoponendole al preventivo consenso delle Sovrintendenze. La conseguenza in tali luoghi è stata una città ulteriormente dispersa, perché, per costruire nei terreni vincolati, si possono realizzare solo case di dimensioni ridotte e con una minima densità di edificazione, che s’inseriscano bene nel paesaggio e siano quasi nascoste. In questo modo piccole costruzioni occupano molte volte il suolo che sarebbe consumato realizzando un’edilizia densa di tipo urbano, portando ai non più possibili, ma magnifici risultati dei lungofiumi di tipo urbano o dei lungomare delle più belle vecchie città italiane. In conclusione, dal 1968 in poi si sono potute costruire e si sono costruite solo periferie.
L’ideologia antiurbana, che ha radici profonde, ha continuato a svilupparsi fino a oggi. La cultura paesaggistica ambientalista considera l’uomo come elemento negativo della natura, della quale è ritenuto nemico. Le città vengono considerate come fonti di consumo di energia e di inquinamento. Ne derivano una serie di interventi non organizzati. Il concetto tradizionale di “città densa” è stato osteggiato anche dall’ideologia politica della lotta alla rendita edile immobiliare: per dare a tutti un po’ di edificabilità e per non lasciare ai proprietari di terreni edificabili rilevanti incrementi di ricchezza, la nuova città si diluisce. In questo modo non si costruiscono più piazze: come può esistere una piazza in un contesto di villette isolate?
È sopravvenuto il collasso mondiale (per tutte, Detroit) di molte periferie “all’americana” dal costo (pubblico e privato) non più sostenibile. La costellazione di spazi pubblici, sovente inutilizzati, ha comportato un aumento dell’inquinamento, poiché per spostarsi sulle conseguenti elevate distanze per ogni funzione urbana serve l’automobile. Non c’è più spazio per il pedone, non c’è quello che si definisce “effetto città”.
È divenuto sempre più urgente fare marcia indietro e ricostituire la città densa. La città è il luogo dove il pedone può incontrare altre persone, è il luogo dell’incontro casuale e del dialogo non programmato, della cultura e dell’elaborazione intellettuale.
Per la verità, l’Europa ha emesso una Direttiva per il risparmio del suolo così male utilizzato. Le Regioni stanno emanando leggi fortemente restrittive in materia.
Il Decreto “sblocca Italia”, varato dal governo Renzi nell’estate del 2014, con un rovesciamento del fronte condivisibile come orientamento, ma di pari carattere ideologico ambientale, dichiara di volere la “densificazione edilizia”; esso prevede la soddisfazione della domanda di nuovi spazi abitabili e agibili nel recupero e nel (difficilissimo e comunque di concreta modesta portata) ampliamento delle costruzioni o del recupero per sostituzione di ampi spazi edificati (parimenti pressoché irrilevante, visto che l’esodo degli stabilimenti industriali dai centri urbani si è ormai realizzato), mentre all’esterno dei contesti edificati la nuova costruzione diviene quasi impossibile.
In realtà, per la mancanza attuale di attività edilizia, tale Decreto non ha ancora mostrato i suoi effetti. Il consumo del suolo per la sua destinazione edilizia, se corretto e non costituente spreco, rimane pur sempre la massima forma di produzione di ricchezza, per cui si deve permettere la costruzione sì di nuove città, ma di vere città e non di squallide periferie.