IL NUTRIMENTO DELL'IMPRESA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

A quattrocento anni dal Convivio di Platone, in cui il banchetto è il pretesto per una disputa sull’amore, con l’atto dell’Eucarestia, Cristo stacca il nutrimento dalla credenza nella sostanza. Nell’ultima cena offre il pane, e dice che è il suo corpo, offre il vino, e dice che è il suo sangue. Diremmo che il corpo e il sangue sono sostanze, stanno sotto a quel che appare, ossia sotto il pane e il vino? Pane e vino sarebbero metafore, starebbero al posto del corpo e del sangue, come crede il protestantesimo? Con il cattolicesimo, invece, non si tratta di metafora sostanziale, ma di transustanziazione: il pane è pane ma anche corpo, il vino è vino ma anche sangue, impossibile trovare di che sostanza si tratti. Con l’Eucarestia, s’introduce nell’Occidente l’assenza di sostanza, non c’è nulla sotto le cose e le parole. Il cibo non è più una sostanza, il cibo non è più una cosa facile, ordinaria, a portata di mano. E il corpo stesso di Cristo non è più sostanza, perché è, addirittura, anche pane. E il sangue stesso non è più sostanza, perché è anche vino.
Se sostantificato, il cibo è pharmakon, è ciò che può fare bene, ma è anche ciò che può fare male. È veleno, ma è anche rimedio, bisogna guardarsene. Così la vita diventa una farmacia. Come sorprendersi se l’anoressia mentale rappresenta nel sintomo la purificazione della sostanza?
La credenza nella sostanza serve per negare la parola, per ritenerla una copertura della realtà che starebbe sotto, “in buona sostanza”. L’appello alla sostanza è un appello alla negazione dell’argomentazione, del ragionamento, del racconto, come se fossero indifferenti alla realtà, come se il modo di dire non importasse. Questa credenza nuoce anche all’impresa, contro i cui valori vengono opposti i dati, i parametri, i fondamentali che sarebbero la sostanza dell’impresa, la sua realtà. È il trionfo della burocrazia, in cui l’interrogazione fonda la risposta, in cui il modulo manca la sfida e la scommessa, la formazione e l’arte propri di ciascuna impresa.
L’industria si nutre d’ingegno, non si alimenta di sostanza. I latini dicevano che ingenium industria alitur: l’ingegno si alimenta con l’industria, con l’intraprendenza. Parafrasando questo motto, Verdiglione scrive che ingenio industria alitur: l’industria si alimenta con l’ingegno. Non con gli eccitanti né con gli psicofarmaci, così diffusi tra manager e imprenditori. Occorre la lucidità per non ricorrere ai luoghi comuni, per non limitarsi ai protocolli. I farmaci tolgono questa lucidità che interviene parlando, che esige dispositivi di parola, non dispositivi chimici. E lo stress non è qualcosa da eliminare: “stress” vuol dire “tensione”. Quello che Sigmund Freud chiamava pulsione era proprio lo stress, era la tensione, la tensione in direzione della riuscita, della qualità. Lo stress non va psicofarmacologizzato. Freud scriveva che si tratta di seguire “la melodia delle pulsioni”. Intervenendo nell’impresa, occorre ascoltare la testimonianza di ciascuno, non per correggere, ma per intendere la memoria, l’esperienza, la verità nel racconto di ciascuno, anche nel lamento, anche nella disperazione.
Il racconto non è il racconto dei fatti in quanto tali. Nel racconto importano il sogno e la dimenticanza. I fatti sono circostanze, quelli che Freud chiamava “i resti diurni del sogno”, cioè i pretesti della realtà di cui il sogno si avvale per alludere ai “contenuti inconsci”. Ma i resti diurni, le circostanze non determinano il destino del viaggio, costituiscono gli elementi per incominciare a ragionare, a pensare, a parlare. Le circostanze introducono a un racconto in cui occorre intendere l’apporto del sogno e della dimenticanza.
Nella valutazione importa capire se interviene nella parola dell’imprenditore e dei collaboratori il sogno, intessuto dal rischio e dalla scommessa di vita, o se imperano il realismo o il fatalismo. Anche la dimenticanza è indispensabile per il racconto. Il manager che vive di ricordi si sbarra il divenire, vive nel passato anziché ciascun giorno, scrive il bilancio dei pesi anziché dell’avvenire.
Con la dimenticanza, la memoria non pesa, non occorre cancellarla o azzerarla. Nessun bisogno di buttare o di cambiare tutto se non a partire da un ricordo, che è sempre falso. Occorre proseguire, ciascun giorno, nella combinazione tra tradizione e invenzione.
In una famosa lettera a Francesco Vettori, Niccolò Machiavelli scrive: “Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; [...] entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro”.
Questo “solum è mio” non allude a una padronanza, ma alla solitudine. Il cibo intellettuale non accomuna, non è di tutti. Anche l’imprenditore si trova ciascun giorno nella solitudine, la sua decisione non può avvalersi di sostanze, nemmeno dell’opinione comune o del buon senso. “Io nacqui per lui” non allude a una predestinazione, ma alla indispensabilità di questo nutrimento ciascun giorno.