LA QUANTITÀ IMPROBABILE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

L’opposizione tra quantità e qualità, sorta con Aristotele e accentuatasi con il discorso scientifico da Cartesio al XIX secolo, è valsa a riconoscere un primato alla quantità finalizzata alla quantificazione, all’algebra e alla geometria: una quantità sottoposta ai concetti di misurabilità, di regolarità, di ricorrenza, di continuità, cui sfuggirebbe la qualità. Questa dicotomia ha comportato un freno per la ricerca scientifica del Novecento che, come testimonia Daniel Lerner nella sua prefazione al libro Qualità e quantità e altre categorie delle scienze (Bollati Boringhieri), ha ovviato al problema cercando “un’interazione – scrive Lerner – tra le qualità e le quantità”. Questo tentativo d’interazione ha portato, per un verso, a “un’emancipazione dall’infinito” (David Hilbert) per la matematica e la fisica e, per l’altro, alla consegna della qualità all’ontologia, alla verità ontologica o intuitiva.
Tolto l’infinito, sulla qualità ontologica, quindi ideale, poggia una quantità ordinale, sostanziale o mentale, che può essere definita minima o massima, piccola o grande, che consente una contabilità, un bilancio sotto il segno del positivo e del negativo, del male o del bene. Quanti soldi? Quanto tempo? L’esperienza, il viaggio e il va e vieni delle cose vengono moralizzati, in nome di un quantificatore universale, valido per ogni e per tutti, che darebbe la misura delle cose. ‘A livella, come scriveva Totò.
Il processo di qualificazione esige la quantità non ordinale, non statistica, dunque non probabilistica. Quanti? La stessa meccanica quantistica è stata troppo spesso usata per supportare il probabilismo. E il principio d’indeterminazione di Heisenberg va indagato, non ridotto a una mancanza di certezza. Contando, il parlante erra: il conto e il calcolo non possono evitare lo sbaglio e l’errore, non per un difetto o una mancanza ontologica, ma per l’eccedenza e il pleonasmo, per l’infinito e il contingente. Parlando. La quantità non può prescindere dal racconto, non è obiettiva o soggettiva, bensì narrativa. Quante e quali cose entrano nella parola, dunque nel dire e nel fare, nella ricerca e nell’impresa? La quantità non è né un dato, né un fatto, non esclude la parola, partecipa alla sua struttura materiale, è industriale, per questo è indispensabile all’impresa e alla città. Il tempo, l’avvenimento e l’evento non hanno più bisogno del riferimento all’essere o all’avere, facendo, dunque non dipendono dalla probabilità. Come sottolinea la testimonianza degli imprenditori di questo numero, l’impresa non può accontentarsi del probabile, esige il gusto dell’improbabile.
La quantità è pragmatica: non quanto basta, secondo la logica del più e del meno, bensì quanto occorre. Nessun soggetto può rappresentarla, non è standard. Inconvertibile al possibile o al necessario (il minimo male!), l’occorrenza sfata il quadrato logico, coglie il contingente come istanza temporale, come principio di realtà. Realtà intellettuale, narrativa, costituita dal sogno e dalla dimenticanza.
Solo nel realismo, la quantità diventa tabù, è circoscritta e definita dal dubbio di sé e dell’Altro, dal principio di ragione sufficiente che rende sufficiente il principio e nega l’itinerario. Questo tabù del conto e del calcolo paralizza il viaggio dell’impresa e di ciascuno, li riporta alla burocrazia, dove la quantità è ordinale e ordinata, dove il tempo è abolito e la novità è sospetta, dove l’infinito è potenziale e chi desidera si accontenta. L’infinito potenziale è la ripetizione dell’identico, mentre l’infinito in atto esige il fare, il tempo, l’Altro. Impossibile accontentarsi di quel che si è e di quel che si ha, la quantità ridotta a dose, la quantità farmacologica, contabile, misurabile, sotto l’idea di morte. Il cibo stesso può divenire dose, se l’anoressia diventa mentale, se la quantità viene misurata, soppesata, finalizzata alla dicotomia vita/ morte, come indica nel suo articolo Mariella Borraccino.
L’infinito non è contabile e non dà il conto per avvenuto. L’idea di creazione, che è idea di origine, avvia, idealmente, una quantità ordinale, basata sulla successione, sulla permanenza, sulla ripetizione dell’unico, dell’identico, non sul pragma e sull’occorrenza. Di “creazione permanente del cosmo”, per una “natura al servizio dell’Onnipotente”, parla Mohammed al Ghazali (1058-1111) nel libro Autodistruzione dei filosofi. La creazione è al servizio del creatore, è natura meccanica, materia inerte, base di una quantità ordinale per una vita ordinaria, comune, comunitaria. Con il dio unico, con il Corano “increato”, tutto è già dato, contato, computato, dunque nessun pensiero, nessuna invenzione e nessuna novità possono prodursi, come è accaduto per centinaia di anni alla cultura, all’economia e alla politica islamiche. Nel suo libro Non è lo stesso dio, non è lo stesso uomo (Cantagalli), Carlo Panella scrive: “Nel 1483 il califfo Bayazit II decretò a Istanbul la proibizione assoluta, pena la morte, non solo della stampa dei libri nelle lingue araba e turca, ma anche della lettura dei libri stampati”, divieto che fu mantenuto per oltre 350 anni, fino alla metà del 1800. Tabù della scrittura come aspetto del tabù della produzione, tabù del profitto: paura della sessualità, che porta a un purismo economico, sociale e politico, a una lotta contro l’occidente, il capitalismo, la modernità. E questo prova la prossimità del nazismo e del comunismo con l’islamismo.
La quantità è senza l’alternativa fra il puro e l’impuro. Quantità in atto, nell’atto di parola, quantità pragmatica che, per la demonologia, come per l’islam, è un reato. La sessualità negata si volge in intolleranza, in particolare contro l’auctoritas, ovvero la crescita, l’abundantia, ovvero l’eccedenza, e la fluentia, con cui la quantità si scrive, senza più il concetto di finitezza. In particolare la quantità pragmatica si scrive nel bilancio dei flussi, della fluenza, dell’influenza, non del positivo e del negativo, nel bilancio dell’avvenire, non di quel che è alle spalle. Quel che è alle spalle è traccia, è apertura, non può fungere da copertura, non può determinare l’avvenire: bloccherebbe il fluire delle cose, limiterebbe la quantità impedendo anche la qualità. Nessuna qualità senza la quantità infinita, la quantità attraverso la scrittura diviene qualità.