LA COMUNITÀ INSOCIALE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

L’idea di comunità come condivisione, in particolare dei doni e delle funzioni (in latino munus è dono, tributo, onere) è riscontrabile già nel II secolo a.C. nella comunità ebraica degli esseni, a cui, secondo Ernest Renan e altri, sarebbe appartenuto anche Gesù Cristo. In questa comunità monastica ante litteram, tutto era in comune, condiviso: un comunismo basato sulla comune credenza. L’agape, l’eucarestia rituale, era un loro rito, che la comunità cristiana proseguirà nella comunione, assieme al concetto di comunità, come testimoniano gli Atti degli apostoli: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ognuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo” (Atti, 2, 44-46). Paolo, che incontra le varie comunità cristiane in Grecia e in Asia minore, nelle sue lettere parla della “comunità dei santi” e degli “eletti dalla grazia”, che sono concetti esseni.
La comunità come condivisione e la sua economia, la sharing economy, presuppone i partecipanti, la loro unione (“stavano insieme”), l’unità cementata da una credenza che unifica. Non a caso, il primo sociologo delle comunità, Ferdinand Tönnies, nota che l’importanza conferita all’unità differenzia la comunità dalla società: nel suo Comunità e società del 1887, scrive: “Mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono”.
Il principio di unità nella comunità deve stabilire l’identità della comunità e quella degli associati tra loro, cioè l’uguaglianza, come aveva colto Sigmund Freud parlando di “comunità dei fratelli”, cioè dei figli che, secondo la mitologia del padre primitivo, fondano la loro unità e la loro uguaglianza sulla correità dell’uccisione del padre e sul suo divoramento. Condivisione della colpa e del cadavere. Questa economia condivisa, quest’unità sociale è basata, secondo Freud, sul “crimine innominabile”, dunque sull’omertà e sul segreto, cioè sull’assenza della parola. Tolta la differenza e la varietà, il terzo, l’Altro, è escluso, anche attraverso la sua inclusione, che è il colmo della sua negazione. Lo dimostra la comunità islamica, la umma: per l’islam, l’unica comunità pura è quella islamica, la sua essenza è l’essenza dell’uomo, fino al suo sacrificio. Questa comunità dei credenti, fondata sulla morte, nega la credenza cristiana che Cristo, la seconda persona della Trinità, il filius, sia Dio, e in tal modo sminuisce il figlio, lo eguaglia ai fratelli, elimina chi non si accomuna. La umma nega ogni altra comunità che non accetti di essere inclusa ed è prioritaria rispetto a ogni altra comunità: la famiglia, l’impresa, lo stato sono subordinati all’appartenenza alla umma, comunità islamica unita, identitaria, dunque solidale tra i suoi appartenenti (welfare islamico), ostile verso i non convertiti, e maltollerante verso i dhimmi, i sottomessi.
Il luogo comune proclama che occorre difendere l’identità occidentale contro l’invasione della comunità islamica. Restando nella logica dell’identità, esso mantiene i presupposti dell’ideologia della comunità unica, identitaria e egualitaria, che trova nella umma la sua massima espressione. Quanto deve la umma alla comunità ateniese o all’impero di Alessandro, al principio d’identità e del terzo escluso stabiliti dal suo maestro Aristotele e poi coltivati nelle comunità gnostiche e diffusi dal cristianesimo? La umma è la verità della comunità occidentale, dove il principio aristotelico d’identità, l’uno identico a sé, nega il filius, l’uno, il figlio che non si accumuna, che non è identico a sé, che non si eguaglia, che non si spiritualizza. Il filosofo gnostico Carpocrate, vissuto a Alessandria d’Egitto nel II secolo, ben prima del sorgere dell’Islam, credeva che lo spirito dell’uguaglianza regnasse e governasse le cose e gli animali e che ogni comunità dovesse conformarsi a tale spirito. Tutto doveva essere messo in comune: beni e corpi, donne e uomini, bambini e anziani.
Altro luogo comune è che la Russia possa costituire un baluardo contro l’islamizzazione dell’Europa. Ma, non a caso, la chiesa ortodossa non insiste sulla passione di Cristo, ma sulla sua resurrezione. Questa religione-ideologia di stato, alla cui comunità si è convertito lo stesso Vladimir Putin, ammette, come il cattolicesimo, la divinità del Figlio, dell’uno, ma afferma che lo Spirito santo procede solo dal Padre, non dal Figlio, attuando quella che viene definita “monarchia del Padre”. Altro modo di negare il filius, subordinandolo al padre, secondo un principio sacrificale: san Cirillo di Alessandria, molto venerato nella chiesa ortodossa, scriveva: “Solo nel sacrificio noi possiamo avvicinare il padre”. Non a caso, lo zar, prima, e Stalin, poi, venivano definiti “Piccolo padre”: questa sottomissione del figlio, dell’uno, di ogni uno, ha portato alla più grande comunità del Novecento, il primo stato comunista del pianeta, eretto sul sacrificio e sullo sterminio di milioni di uomini. In nome della divinizzazione dell’uomo, seguendo la lezione di un altro santo orientale, sant’Atanasio di Alessandria: “Dio è divenuto Uomo affinché l’Uomo possa divenire Dio”.
L’uno aristotelico, l’uno identico a sé, l’uno che non differisce da sé si divide in due, si diversifica in/da un altro uno che, tolto di mezzo l’Altro irrappresentabile, il terzo non escluso, lo personifica nell’alternativa amico-nemico. Infatti, l’uno che si divide in due comporta il doppio, la rivalità, l’invidia, il conflitto, il fratello contro l’altro fratello, nell’esclusione del terzo, dell’Altro. Caino e Abele, Romolo e Remo, fino ai tagliagole islamici sono esempi di fratricidio fondante la comunità, di fratricidio quale aspetto dell’infanticidio.
L’infanticidio è la messa a morte dell’uno che comporta la morte dell’Altro, la comunità mortifera, la comunità spirituale, come scrive Hegel: “La morte, da ciò che essa significa immediatamente, dal non-essere di questo singolo, viene trasfigurata in universalità dello spirito, che vive nella sua comunità e in essa, ogni giorno, muore e risorge”.
Universalità dello spirito, comunità universale di Hegel, o pluralità delle comunità nell’era dell’accesso e dell’economia della condivisione. Ma la comunità si fonda sullo spirito – lo spirito della comunità, che è lo spirito dell’uguaglianza, spirito unificante – solo abolendo la parola, fondando la comunità sul segreto, che è tale perché condiviso, per questo è sempre segreto di Pulcinella. Ogni comunità ha il suo spirito, ogni comunità ha il suo segreto, ogni comunità è spirituale. Nella parola lo spirito non unifica, perché nella parola le cose procedono dal due, dall’apertura, non dalla copertura, in cui le cose, anche la comunità, procedono dall’uno, da una presunta unità originaria: parlando, l’uno, il significante, il figlio, non è unitario né uguale a sé, si divide da sé e differisce da sé, resiste a ogni unificazione, duplicazione, pluralizzazione.
Nella comunità che si instaura nella parola non c’è condivisione, le cose non si dividono in due o più, dunque nemmeno tra i fratelli, che non sono la moltiplicazione del figlio. Il frater non è il doppio dell’uno, non vi si oppone, è alter filius, certifica il filius. Certificazione non ontologica, certificazione linguistica: “certo” deriva da cernere, dividere, divisione nella parola, divisione dell’uno, non divisione in due, per consentire la diversità, ma divisione da sé. Differenza non relativa, non oppositiva, non selettiva o elettiva.
La procedura dal due secondo la logica della parola impedisce che l’uno si opponga all’Altro, dunque impedisce il fratricidio e il razzismo. La comunità che procede dal due non è unificante né inclusiva, non deve mantenere un proprio spirito né fondarsi su esso. Lo spirito della comunità la paralizza e la eternizza, impedisce il fare e il tempo. Scrive Hegel: “[...] lo spirito appare nel tempo finché non afferra il proprio concetto puro, cioè finché non cancella il tempo”. La cancellazione del tempo è l’eterno presente, la contemporaneità, il tempo condiviso, il tempo reale, l’accesso diretto promessi dagli ideologi dei social network e delle comunità virtuali: neocomunismo dell’economia sociale, spiritualismo dell’inclusione planetaria.
La comunità nella parola non è prigione, cioè non è eterna e immutabile, dunque non cancella il tempo perché si basa sul fare, sulla poesia, sull’impresa, non sull’essere, non sull’identità, non sull’unità. Nella umma fratricida e mortifera il tempo non esiste perché non esiste l’impresa, impedita dallo spirito d’identità e di unità.
Il dire, il fare, l’impresa esigono la parola originaria. Parlando, l’uno, il significante differisce da sé, il principio d’identità viene meno e non consente più che il terzo sia escluso. Nella comunità della parola, parlando e facendo interviene l’Altro, il terzo che non si lascia escludere né includere. Altro non personificabile in un altro, Altro come Altro tempo. La comunità esige il tempo, che interviene nel fare, non lo spirito identitario e ontologico, lo spirito mortifero. La comunità è pragmatica perché è costituita dal fare, dall’impresa, che non si narrano e non si scrivono senza lo spirito costruttivo, lo spirito come idea dell’oggetto dell’identificazione - non dell’identità - che è condizione della comunità e dei suoi dispositivi. Nella comunità opera questo spirito pragmatico, operatore perché il fare giunga alla riuscita, tutt’altro che finalizzato al bene o alla pace. Questo operatore pragmatico vanifica l’opposizione società-comunità: l’impresa è sia società sia comunità pragmatica, l’Altro tempo in cui essa si effettua esclude separazione e unificazione.
L’impresa è una comunità sociale? L’impresa deve dare un sostegno alla città intesa come comunità sociale? La comunità sociale è comunità solidale, identitaria, finalizzata, spirituale. L’impresa è comunità in atto, pragmatica, in cui l’operare comporta la solidarietà come dispositivo di accoglienza, che si attiene alla ragione e al diritto dell’Altro, non come fratellanza, che esclude l’Altro includendolo. Con i suoi dispositivi pragmatici, l’azienda esclude il fratricidio, poggia sulla differenza e la varietà, il suo progetto e il suo programma comportano la valorizzazione delle merci, dei prodotti, della città. È specifico dell’impresa indicare che la città è citta del tempo, dell’ingegneria e della politica, della scienza e della finanza, non comunità sociale, non condivisione: il tempo è divisione (il latino tempus viene dal greco témno, taglio, divido), la condivisione sarebbe il taglio del taglio, l’eliminazione del taglio, l’eliminazione del tempo per una città spaziale, immobile, ideale. L’impresa non deve avere una funzione sociale, non ha bisogno di contribuire al welfare – altruista senza l’Altro –, ma è imprescindibile dalla città, dalla regione, dal paese perché è proprietà del fare, con il tempo comporta la produzione, il rischio e la scommessa di vita, dissipando la circolarità spiritualistica e mortifera. Nessun mecenatismo: la generosità è virtù dell’Altro, che si avvale dell’ingegno e introduce all’industria. Non cedere sull’industria, non delegare o abdicare, non abbandonare o non abbandonarsi, per un verso, attuare dispositivi di direzione, di produzione, finanziari e di valore, ma anche dispositivi di scrittura della memoria come esperienza, per l’altro verso, questo richiede lo statuto dell’imprenditore, che in questo modo è generoso, si attiene alla virtù dell’Altro.