LA COMUNITÀ SENZA IL BENE IDEALE
L’impresa è
libera. Non può essere incatenata in sistemi, mentalità, arcaismi che frenano
il suo viaggio. E l’imprenditore come statuto intellettuale, promuovendo il
fare e i dispositivi di valore, contribuisce alla comunità pragmatica, quella
in cui ciascuno diviene caso di qualità, facendo, non aggrappandosi a
ciò che presume di essere o di avere. Nella comunità pragmatica
non importa ciò che ognuno ha o non ha, è o non è, ma i dispositivi che
ciascuno instaura: dispositivi di ricerca e d’impresa, dispositivi commerciali,
finanziari, pragmatici, dispositivi di parola e di scrittura.
L’impresa è
libera. Tuttavia, sull’impresa gravano ideologie che si propongono come vie per
la salvezza della società e dell’impresa stessa – spiritualismo, misticismo, radicalismo,
gnosi – e che spacciano beceri luoghi comuni come quintessenza della modernità.
Dalle cattedre della Sorbona, l’ideologia francese, con la penna di un
sociologo in papillon, giunge addirittura a propugnare la necessità di una comunità
spirituale, che, attraverso il “servizio del popolo”, la liturgia, la
“teoria dei chierichetti”, possa contrastare l’astrazione, considerata frutto
dell’etica protestante, da cui sarebbe sorto il disincanto del mondo (Max
Weber) e il capitalismo, con le sue “conseguenze nefaste per l’uomo e la
società”. E mette in guardia dai pericoli della hybris, l’audacia, che,
guarda caso, è una virtù senza cui non c’è impresa, né avventura né viaggio.
In questa
disamina senza analisi, ciò che importa non è il ragionamento, la ragione
dell’Altro, la ragione pragmatica, ma “l’effusione”, la “via apotropaica” di
accesso all’Essere. Per questo ognuno è esortato a vivere, in comunione con gli
altri, esperienze emotive, che, “come la liturgia”, coinvolgano i sensi e si
svolgano in silenzio o nel mormorio. La comunità spirituale non ha bisogno della
parola – che il sociologo in papillon chiama “discorso” o “loquacità sterile”
–, ma del segreto da condividere, che egli definisce l’unico vero “cemento
dell’armonia sociale”. Come dire che, per andare d’accordo, è meglio evitare di
parlare, è meglio il tacito assenso alle credenze diffuse, agli slogan ripetuti
come mantra, al senso, al sapere e alla verità stabiliti dalla comunità che
pone il bene ideale al di sopra di tutto, anche della libertà della parola.
E il bene
ideale oggi si chiama condivisione, inclusività, società circolare, sharing
economy, “coscienza di luogo”, concrescita e conricerca, big data, “rete che
realizza hub che tengono insieme spazio e tempo”, “iperluoghi della circolarità
eletta socialità simultanea”: questi sono i termini con cui la sociologia
nostrana traduce e cavalca la campagna transalpina contro l’Occidente e la sua
cultura, la sua scienza, la sua arte, la sua impresa. Pretendendo di cancellare
il 97 per cento del tessuto industriale italiano, costituito dalle piccole e
medie imprese, che definisce “pulviscolo dell’economia diffusa”.
“Per ciò che
riguarda il pulviscolo dell’economia diffusa, che pare irraggiungibile nel suo
non fare condensa – spiega un visionario italiano dei “microcosmi” –, sostengo
da tempo che occorrerebbe mettere un maker o uno smanettone nelle tante imprese
manifatturiere, commerciali e turistiche del nostro paese. E per la città che
viene, la smart city, guardare ai tanti coworking, fablab, imprese sociali,
startup, che fioriscono carsicamente nei sottoscala della città. Occorre porsi
il tema della redistribuzione e socializzazione dei big data, il vero bene
comune della sharing economy e della società circolare”.
Nella
comunità della circolazione, la comunità dell’accesso a tutto per tutti, la
comunità della fine del lavoro, importa che ognuno si faccia pesciolino nella
rete, importa che sia connesso. La connessione è il nuovo dio e ha i suoi riti
e la sua liturgia, il suo “servizio del popolo”, che fonda una qualche community,
dove tutto è facile, tutto è possibile, basta volere farne parte, non c’è
nessuna difficoltà, basta diventare figli della rete. Figli che hanno abolito
il padre come indice della funzione di rimozione, la funzione che impedisce la
facoltà, la padronanza sulla parola, sugli uomini, sulle donne, sulla vita. Che
ne è dell’individuo, della particolarità, della specificità, della differenza e
della varietà, nella società senza il padre, nella community che elude
la difficoltà della parola, intoglibile?
Nella
comunità circolare, comunità spirituale, la relazione prende il posto della
funzione: la rete è la meta, l’importante è mettersi in rete e fare sistema.
Non conta il fare, ma il fare rete. “Farete”: ecco la promessa e l’imperativo
paradossali in cui rischia di sfociare lo slogan adottato da chi si fa paladino
del bene ideale per l’impresa e per la società.
La comunità
pragmatica non è a fin di bene e non è definita dalle sue finalità. La partita,
i dispositivi che s’instaurano nella comunità pragmatica non hanno il male o il
nemico da sconfiggere e non servono a includere l’Altro, come se posse
possibile escluderlo. Il buonismo, il politically correct imperano nella
società circolare dei fratelli, come scotto da pagare per il crimine contro il
padre, che non smette di perseguitarli. Freud ce lo insegna in Totem e tabù:
ucciso il padre, la comunità dei fratelli erige il divieto di assumere
l’autorità e tutti devono essere uguali. Da qui, dall’uguale sociale, nasce la
morale comune. E l’accesso può essere concesso a tutti proprio perché la legge della
rete governa il sacro, lo incanala nei riti consentiti e prescritti, affinché
non prenda vie pericolose e ignote.
Mai come
oggi occorre l’analisi di questi arcaismi contro l’Italia, l’Europa e
l’Occidente. Mai come oggi la cifrematica, la scienza della parola che diviene
qualità, ha il compito d’instaurare dispositivi di parola nella famiglia, nella
scuola e nell’impresa, perché ciascuno possa vivere e viaggiare, anziché
circolare.