LA MEDICINA E LA CURA. NON C’È RIVOLUZIONE TRANSUMANISTA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, psichiatra, presidente dell’Associazione cifrematica di Padova

Semel in anno licet insanire, dicevano i latini, con Seneca. Insanire, fare cose folli, senza senno, fuori dall’ordinario. Questo, nell’accezione comune, volgare. Ma è curioso l’etimo di insania, da cui insanire. Sania, termine raro e desueto, da cui sanies, -ei, non è la salute, come si potrebbe credere, di cui insania sarebbe il contrario. No, sanies è il sangue malato, infetto, il sangue che diviene veleno. Se il sangue malato va alla testa, la testa, con questo sangue, insania, incorre nella follia dello spirito. Insanus, anche per i latini era il folle, oggi nell’uso, purtroppo comune, vale a indicare chi non è sano di mente. Insanus, per i latini, era il folle. Oggi, varrebbe a indicare il cosiddetto “malato di mente”, il “malato di testa”, chi non è sano nella mente o nella testa. Quindi, nell’insania, si tratta di un’economia del sangue che non è riuscita, di una falla nell’economia del sangue che determina il “male mentale”. E il male mentale nell’insania, è il male che viene dal corpo. Precisamente, dal sangue.
Seneca contraddiceva, quindi, Antifonte, filosofo greco, sofista, che affermava, invece, che in tutti gli uomini è la mente che dirige l’uomo verso la salute o verso la malattia, come verso tutto il resto. La mente ha il dominio e il controllo sul corpo. E Antifonte, con il suo gabinetto nella piazza di Corinto, può essere considerato un precursore della psicoterapia.
Con lui, l’uomo diventa la rappresentazione dell’uno che si divide in due e che deve ricomporsi nell’unità. Il vero uomo dev’essere il frutto della ricomposizione, dopo una divisione: l’uomo si divide in mente e corpo, poi si ricompone e viene a rappresentare la vera essenza umana. In questo percorso dalla divisione alla ricomposizione, la mente è contro il corpo o il corpo è contro la mente, uno contro l’altro. La sintesi ha come giustificazione l’abolizione del disturbo, perché la divisione in due genera conflitti, dato che una parte vuole prevalere sull’altra. Ecco il conflitto, la lotta interiore che genera il disturbo psicosomatico, che è un disturbo per il primato, per la dominanza, per la prevalenza, per la prestanza, per la vittoria.
Il disturbo, soprattutto se insituabile, non ben localizzato, è intollerabile da quella che viene chiamata, a torto, la scienza medica. Così, abolire ogni disturbo è considerata la via per il benessere generale. Il fine di bene umanitario è l’abolizione di ogni disturbo. Questo vale sia per il movimento del transumanesimo sia per la medicina sacramentale, quella medicina che si ritiene essere sorta per assicurare il benessere attraverso l’abolizione del male. Questo è un compito che è stato assegnato a una medicina che più propriamente potremo chiamare pubblica e che tanto più aumenta l’idea di progresso della sanità, tanto più si discosta dalla medicina originaria.
La sanità pubblica presume di conseguire il benessere generale attraverso la conoscenza delle proprietà e delle caratteristiche dell’umano. A questo proposito, stila un elenco sempre più ricco di disturbi. E l’elenco è destinato a crescere, perché questi disturbi si differenziano sempre, non solo l’uno dall’altro, costituendo un grosso problema per la sanità, che vorrebbe trattare i disturbi nella loro generalità: accade che qualcuno si rechi dal medico e racconti del suo disturbo e per via del racconto non c’è disturbo che possa essere assimilato a un altro. E poi varia. Man mano che il discorso prosegue, il disturbo si trasforma. Non è più come prima. È guarito? No, non è guarito. È abolito? No, non è abolito. Ce n’è un altro; non proprio diverso… simile, ma non uguale, ci assomiglia. Ma non è più quello, è un altro. E il medico si spazientisce: “Allora, che disturbo è? Sicuramente, non è somatico. Se fosse somatico, sarebbe inquadrabile. È psichico, è un disturbo psichico, cioè mentale, cioè psicosomatico, cioè è un disturbo inguaribile, intrattabile”. È un disturbo di cui il medico non vuole sapere più niente, è un disturbo il cui rimedio è ancora da inventare. E allora, ecco che si muovono vari apparati per inventare farmaci sempre più mirati, rimedi sempre più accurati, ricerche sempre più minute per sondare in maniera sempre più minuziosa l’origine e la natura del disturbo che non si riesce a inquadrare con precisione.
Forse, il problema sta nel fatto che il disturbo entra nel racconto? È questo che lo rende di natura imprecisa; entra nel racconto e non è fissabile. Allora, il disturbo vero è nel racconto, il disturbo vero è la parola con cui è raccontato il disturbo: è la parola il disturbo originario, contro cui tentano di specializzarsi quelle che propriamente sono chiamate le scienze e le discipline umane, cioè che hanno come riferimento l’umano, l’uomo. L’uomo come entità ideale, che bisogna rappresentare come un’entità standard attraverso un processo di conformazione.
Lo psichismo sorge per questo, per poter catalogare l’umano, per poter prevedere come ragiona l’umano, cosa pensa l’umano, cosa dice l’umano, in termini tali che non sia nemmeno più necessario ascoltarlo, perché, anzi, tecnologicamente sia possibile fornire i rimedi prima ancora che siano chiesti. È questa la tendenza, è questo l’orientamento. Quando sentiamo parlare di neuroscienze, di bioingegneria, di psicobiologia, di psiconeurofarmacologia, di nanotecnologie, ci stanno parlando di questo orientamento, che tenta di ostacolare e abolire la parola, per produrre un inquadramento sostanziale del disturbo di tutti.
Non più il disturbo di qualcuno, di chi lo avverte e lo incontra nel suo andare, ma il disturbo di tutti che può essere trattato per tutti allo stesso modo. Sembrerebbe una bella cosa! Qualcuno potrebbe pensare che ci sia finalmente chi è in grado di risolvere in maniera rapida ed esaustiva ogni disturbo. E se prestiamo attenzione alle pubblicità sui manifesti nelle scuole, nelle università, nei centri psicopedagogici, in internet, noi troviamo sempre più spesso riferimento a corsi che invitano genitori, insegnanti, educatori, professionisti a partecipare per imparare che cosa dire in risposta agli allievi, ai figli, alle persone che si lamentano di qualcosa.
Imparare cosa dire, cosa rispondere a chi si lamenta di un disturbo. Imparare la risposta standard.
Sarebbe questa la tecnologia della conoscenza: imparare la parola standard, che potrebbe così abolire il racconto di ciascuno in merito a ciò che incontra nel suo andare, nel disagio originario che procede dal fatto che le cose cominciano non dall’uno, come credevano gli antichi, ma dal due.
Le cose procedono dall’apertura. E procedendo dall’apertura, non hanno la necessità di riunificarsi, perché non c’è la divisione in due. Le cose già procedono dal due, non devono tornare all’uno, non devono tornare, devono proseguire a andare. E l’andare non è prevedibile, non è inquadrabile; questo fa lo scacco di ogni apparato disciplinare, fa lo scacco della presunta tecnologia della mente, chiamata mentalismo o psichismo, ossia, la rappresentazione della mente come contenitore, valido per il genere: un sistema chiuso. La parola non appartiene a nessun sistema e fa lo scacco della presunzione di potere istituire una psiche universale che governi in nome del progresso e come segno del progresso.
Il “progresso” ha come dovere morale migliorare le capacità fisiche, cognitive del genere umano, assicurare il benessere, abolire la sofferenza, abolire il male e abolire anche la morte. E così, dall’idea dell’umano come caratteristica generale, una volta constatato che il limite dell’umano è la morte, il progresso diventa porre un rimedio alla morte. Allora, si tratta di andare dall’umano, ancora suscettibile di morte, al post-umano, che sarà oltre il problema della morte.
Sorge così il transumanesimo, il movimento che mira alla transizione dall’umano al post-umano: dall’umano che ha come problema il male, il tempo che finisce, la morte, al postumano, dove la vita sarà infinita senza più morte. Come può avvenire questo miracolo? Abolendo il supporto mortale, il supporto biologico. Si tratterà di trasferire l’hardware e il software attuali; un hardware troppo morbido, deperibile, in un hardware più hard: metalli infrangibili, sostanze incorruttibili, eternizzanti, e un software sempre più soft. Anche questo, non più caricato su un supporto deperibile come può essere il cervello umano, ma caricato su un supporto non deperibile, digitale, come può essere un disco rigido di un computer. È il cosiddetto upload della mente, dal cervello a un supporto digitale. Questo è il mito dell’immortalità che è coltivato e promesso dalla tecnologia attuale.
Il problema è l’idea che il tempo finisca. Il problema sta nelle fantasie di origine, di fine, di male, di morte, che hanno costellato l’esperienza di ogni civiltà e che ancora angosciano coloro che non fanno l’esperienza della parola nel gerundio della vita e pensano il tempo come passato, presente e futuro, quindi come tempo che finisce.
Lo scoglio alla realizzazione di questo progetto fantasmatico è addotto essere la coscienza e la sua non riproducibilità: coscienza, qui, è l’altro nome del funzionamento della parola e dell’intervento del tempo in ciò che scandisce la specificità secondo la particolarità. Il numero della parola è irriproducibile e così la combinatoria.
Quel che si dice non è il risultato di un algoritmo. E entra nella retorica della parola attraverso il funzionamento e i suoi modi.
Tutta questa tecnologia si regge sugli algoritmi, cioè su quei processi di calcolo che sarebbero in grado attraverso passi semplici e di numero limitato, di risolvere un problema. Ma non possono essere innumerevoli problemi asistematici, perché dovrebbero essere innumerevoli anche gli algoritmi: il vantaggio di un algoritmo è che risolve più problemi. Ma la parola è intraducibile in algoritmi, in quanto, per esempio, ogni traduzione avvia altri equivoci, altre interpretazioni, altre formule, senza fine. E se è possibile applicare un processo economico come quello dell’algoritmo al sistema finito di un computer, nel caso dell’infinito e della parola non lo è. E allora, proprio l’impossibilità di poter istituire un algoritmo generale della parola, pone la questione specifica della cura.
Cura non è l’applicazione di un rimedio, non è la somministrazione di una sostanza, non è una metodologia purgante o purificante. La cura è l’avvio del processo di valorizzazione della vita stessa. Questa è la cura.
La cura è il modo con cui s’instaura il capitale della vita e il processo di valorizzazione è senza fine. Parlando, facendo scrivendo, la cura è nel gerundio. Questa è la cura nella medicina originaria, in cui si tratta di disporre e avvalersi dei mezzi e degli strumenti della parola, con l’analisi delle fantasmatiche del tempo che finisce, del fantasma di morte, del fantasma di male, del fantasma di origine. Con l’analisi nessuno è più il segno dell’origine o della predestinazione familiare o sociale.
Oggi, la tecnologia rappresenta il deus ex machina che dovrebbe consentire di abolire la parola e la cura, per sostituirle con la realizzazione “tecnica” delle fantasmatiche più classicamente umane.
 
Il testo di Ruggero Chinaglia è tratto dalla sua conferenza La medicina e la cura. Non c’è rivoluzione transumanista (Bologna, Centro Civico San Vitale, 19 gennaio 2017)