DALLA CURA DEI TALENTI, l’IMMUNITÀ DELL’IMPRESA

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO)

Nei suoi ventisette anni di attività, TEC Eurolab ha dato prova di grande capacità tecnica e organizzativa, divenendo partner di clienti importanti in settori come l’aerospaziale, il biomedicale, il meccanico e l’automotive, ai quali offre servizi di analisi e testing dei materiali e dei prodotti, sia nei casi di rottura sia nelle fasi di progettazione. Ma, quando avete avviato l’attività, da che cosa nasceva la forza del vostro progetto? Eravamo due soci spinti da una forza differente: il mio socio, Alberto Montagnani, che ho coinvolto nell’avventura, era molto più razionale di me, diciamo più attento alla valutazione del rischio economico, mentre la mia spinta nasceva da un’inquietudine. Ormai, da diversi anni, lavoravo come dipendente facendo del mio meglio, ma capivo che non era il mio ambito, non riuscivo a stare nei canoni che, allora come oggi, regolano la vita di un’impresa: timbrare il cartellino alle 8.00, smettere a mezzogiorno, riprendere alle 13.00 e smettere alle 17.00. Io non ci riuscivo, finiva spesso che lavoravo a casa la sera o il sabato mattina, anche se gli straordinari non erano pagati. Considerando che l’attività di laboratorio non si svolge a una catena di montaggio, ma comporta una produzione intellettuale, spesso nella prima ora il mio rendimento sfiorava lo zero. Tuttavia, il vantaggio era sempre per il mio datore di lavoro, perché a un momento di svogliatezza seguivano prestazioni molto elevate, superiori anche come tempo dedicato, perché, se era necessario, rimanevo in azienda anche fino alle otto di sera, sempre senza percepire lo straordinario. Ricordo che nel 1988, nel periodo in cui mia moglie era in ospedale a Bologna in attesa del primo figlio, tornavo dall’ospedale alle 22.30, mi recavo in laboratorio per eseguire le radiografie degli ammortizzatori di un Suv, che all’epoca la Lamborghini stava costruendo, e andavo avanti fino alle 2.30-3.00 di notte. È chiaro che la mattina alle 8.00 poteva accadere che avessi poca voglia di lavorare, almeno fino alle nove. Tutto ciò mi fece pensare che come dipendente non mi sarei mai assunto, avevo bisogno di esprimermi in modo differente. Da qui la mia spinta a intraprendere un’attività indipendente, insieme al mio socio, che aveva competenze tecniche superiori alle mie, pertanto avevo assolutamente bisogno che mi seguisse in questa avventura. Quindi, possiamo dire che la forza venisse dall’esigenza di esprimere se stessi: impresa per me vuol dire un modo per esprimere se stessi. Se avessi saputo dipingere, forse non avrei mai fatto l’imprenditore, dipingere o suonare uno strumento, che è un modo di esprimersi molto bello, anche se non sempre viene capito, come del resto l’imprenditore. D’altra parte, l’imprenditore, come l’artista, non può fermarsi alla propria soddisfazione nelle cose che produce, non può accontentarsi di pensare che la propria sia una “grande opera”, ha bisogno del pubblico, e il pubblico non sempre capisce e intende, però, finché ha questa forza, questa spinta, non c’è nulla che possa scoraggiarlo. E, nel mio caso, questa spinta ha molto poco a che fare con l’aspetto economico, tant’è che in questi anni gli utili sono sempre stati reinvestiti nell’azienda, perché è bello vedere all’opera una macchina nuova, un giovane ingegnere che ci lavora, che fa un programma, si sbaglia e poi lo rifà, finché non va bene, finché non è soddisfatto, finché il cliente non è soddisfatto. Allora capiamo che abbiamo una tecnologia innovativa e, quando la tecnologia si ripaga, subito pensiamo che dobbiamo incominciare a fare qualcos’altro, perché non possiamo rimanere fermi. Questa è una forza che non ha nulla a che fare con la forza economica e finanziaria. Questa, semmai, è un effetto... Sì, arriva se interviene anche quel minimo di fortuna, o di non sfortuna, che proviene dal contesto: noi possiamo muovere diverse leve e possiamo organizzarci per giungere alla riuscita, ma il contesto in cui operiamo deve essere ricettivo; se, per esempio, un’impresa offre servizi all’industria, non può ottenere risultati nel caso in cui l’industria sia assente. Quindi, noi dobbiamo ringraziare la manifattura italiana, intesa non tanto come “grandi aziende”, ma come realtà create da grandi imprenditori che investono e assicurano l’avvenire a tutto il paese, noi compresi. Per immunità di solito s’intende la capacità di difendersi dall’esterno. La cifrematica ha trovato un’accezione nuova d’immunità che viene dall’incontro, dall’Altro, non dalla chiusura ma dall’apertura e dallo scambio. A partire dalla mia esperienza, posso dire che l’immunità nell’azienda è data dalla cura che l’imprenditore pone nei confronti delle persone che lo circondano, le persone con le quali conferisce e alle quali delega fasi organizzative importanti. Messe in condizione di esprimersi, di trovare soddisfazione in ciò che fanno, di trovare realizzazione professionale e economica, le persone diventano i primi difensori dell’azienda e la mantengono immune da tutti quegli accidenti che possono intervenire lavorando. Possono essere piccoli incidenti, come un’attrezzatura costosa che si rompe, o grandi, come una recessione economica che colpisce la nazione e, di conseguenza, l’azienda. O, forse, non proprio di conseguenza, perché questa immunità e questa forza magari riescono a condurre l’azienda in un’area immune dalla recessione del paese, al top della tecnologia e delle competenze, ma anche al top della voglia di esprimersi di ciascuna persona. Questa è la prova che avete dato voi stessi: nel periodo in cui la maggior parte delle aziende era in ginocchio, voi invece avete investito, siete cresciuti, proprio per non accettare questa idea di chiusura e di ridimensionamento conseguente a quello che sembrava imporre il contesto globale. Le persone, i giovani che sono cresciuti con noi, ci hanno dato la forza per osare e spingerci a un altro livello, proprio durante il periodo iniziato nell’annus horribilis 2009. Perché, quando si tratta di fare investimenti in cui è in gioco l’avvenire dell’azienda, non basta la tecnologia, occorrono le persone (e se ci sono vuol dire che c’è stata cura nei loro confronti), perché sarebbe impossibile affidarsi a un manager esterno quando si deve compiere un salto di qualità così decisivo. Ma se ci sono persone che per anni hanno vissuto in azienda, condividendo valori, entusiasmo, momenti di difficoltà e aspettative, allora, non c’è bisogno di aver coraggio, piuttosto, non bisogna aver paura, che è qualcosa di differente. Qual è stato il salto di qualità che avete compiuto in questi anni? Se prima il nostro core business era nelle analisi e nelle prove su manufatti o componenti volte unicamente a verificare che i materiali fossero conformi a quanto richiesto dal committente, nel 2013 abbiamo iniziato a spostarci verso l’ambito della ricerca e sviluppo: abbiamo incominciato a studiare e a fornire servizi su materiali o processi innovativi quali, ad esempio, la fibra di carbonio o l’Additive Manufacturing. Così, abbiamo acquisito competenze e strumentazioni per fare prove in quei settori che nessuno stava seguendo e di cui non si conoscevano i possibili sviluppi. Comunque, non è stata una mia idea, io mi sono limitato a dare fiducia a uno dei nostri ingegneri, Andrea Scanavini, il quale, avendo avvertito che l’azienda riponeva fiducia nel suo operato, si è espresso al meglio. Poi, questa svolta e questa tendenza verso l’innovazione estrema hanno attratto altri giovani talenti, compreso mio figlio Marco, che si è guadagnato sul campo il titolo di responsabile del nostro centro di tomografia industriale, un servizio ad alto valore aggiunto, un riferimento europeo, che a sua volta genera collaborazioni con le università e accoglie altri giovani, evitando alcune fughe di cervelli. Tutto questo è alla base dell’immunità, ma sempre grazie alle persone, ai dispositivi di parola che sono dispositivi di riuscita.