IL PAZIENTE "ZERO" E IL CUORE SENZA CHIRURGIA

Qualifiche dell'autore: 
cifrante, segretario dell'Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna, responsabile a Bologna della Cooperativa Sociale "Sanitas atque Salus"

Nella storia del pensiero scientifico poche altre discipline hanno offerto ai ricercatori elementi di problematicità tassonomica e piani di difficoltà epistemologica quanto la medicina, già a partire dalle questioni se si tratti di scienza o di arte, se si fondi prevalentemente su un metodo, e quale, o su una prassi. Essa si è dovuta reinventare costantemente, negli aspetti pragmatici e in molti suoi assunti teorici, a partire da condizioni operative, da acquisizioni e dagli strumenti di applicazione, e, come la psicanalisi, a partire da Freud, continua a confermarci, anche dalla decisione alla cura e a seguire le istanze di salute che ciascuno può acquisire ciascun momento della sua esistenza, nessuno escluso.

Tuttavia, nella pratica medica, accade sempre più spesso che si presentino problemi di metodologia e di organizzazione della ricerca, di formalizzazione e di valutazione dei risultati e, frequentemente, di comunicazione e di trasmissione degli stessi, in contesti geografici, culturali e politici, anche in epoca di internet, ancora estremamente variabili e condizionanti. La lettura dell’interessante libro della giornalista Jillie Collings Il cuore senza chirurgia mi ha riportato con decisione a queste tematiche. In un campo che sembrava il più alieno da controversie e da fratture metodologiche come la cardiologia, trapelano, da questo scritto, incertezze terapeutiche e aspetti di prevaricazione da parte delle cosiddette terapie invasive, su altre, come le citate terapie chelanti, alcune delle quali ancora non entrate nell’uso e nei protocolli terapeutici di molti paesi, fra cui l’Italia. Non è sufficiente obiettare che tale fenomeno si presenta frequentemente nella pratica medica.

Se nella cosiddetta parte sperimentale si seguono, infatti, tuttora rigorosamente i principi considerati basilari della metodologia della ricerca, quando si passa alla cosiddetta medicina dei grandi numeri, che è poi quella dell’individuo, del “ciascuno”, ci si accorge che è quasi scomparsa l’arte del “medeor”, che non ci sono più né medico né paziente come sono stati conosciuti per secoli. Esiste, soprattutto a partire dagli ultimi due decenni, un’organizzazione della ricerca, strettamente collegata all’industria, con le sue implicazioni economiche planetarie, e a interessi non più solamente politici ma oramai addirittura strategici, che fa sentire i suoi effetti, e in molti casi li impone.

Già nel passaggio dalla ricerca sperimentale alla clinica viene saltato sempre più spesso il modello di Hempel per la valutazione dei risultati, che suggerisce di verificare le risultanze di un intervento attraverso una griglia che preveda l’utilizzazione di strumenti aritmetici per valutare il rapporto tra condizioni iniziali e condizioni finali del cosiddetto oggetto d’intervento nell’ambito di un campione non ordinato. Il prevalere del mito del numero come ordinatore supremo, senza più aritmetica, è diventato anche il mito della possibilità di controllo su ogni devianza, a partire dalla malattia. Il numero, non solamente strumento di catalogazione e d’individuazione, è indice dell’infinito delle combinatorie. Lo zero è la condizione perché il numero non sia sempre lo stesso e non sia prevedibile in modo inequivocabile. Se si pretende di localizzarlo, può ricomparire dove meno lo si aspetta. Tutte e tre le grandi nuove patologie, l’Aids, il cosiddetto “morbo della mucca pazza”, o malattia di CJ, e la SRS, la cosiddetta “polmonite letale atipica” hanno avuto attinenza con settori di ricerca che si occupano di manipolazioni virali nel delicato settore di passaggio dall’osservazione e dalla sperimentazione sugli animali a quella sull’uomo.

Per la SRS esiste, secondo fonti accreditate, una prova testimoniale: il professore cinese Liu Janlun, dell’Università di Guangzhou, che ricercava un vaccino “zero” per affrontare una malattia d’interesse veterinario, per mancata osservanza di leggi di copertura, per assenza di comunicazione, o per il suo nascondimento per motivi strategici, è divenuto, egli stesso, “zero” rispetto alla condizione di malato. È divenuto, suo malgrado, condizione di una nuova malattia.

Se l’appello, nei riguardi dei medici, è dunque quello di continuare ad allontanarsi dalla concezione della cosiddetta “metafisica del male” e dai suoi effetti, per proseguire nello sforzo di divenire sempre più scientifica, e riprendere, come sottolinea la scienza della parola, gli aspetti relativi all’etica e a un’arte in relazione con l’assoluto, un compito importante concerne anche chi si trova nella cosiddetta condizione di paziente.

Occorre che questo suo preteso ruolo non sia più solamente quello di soggetto alla patologia. La clinica, come ben indica la cifrematica, non procede dal fantasma e non può affidare precipuamente ad altri la gestione della salute e del tempo. Procede dal due e dal suo modo, dalla speranza, dal proseguimento, dall’ironia.

Occorre che divenga una scommessa di vita, ciascun istante, e sia condizione per l’emergere di una cultura della salute e della qualità della vita, quindi della ricerca, senza alcuna ragione sull’altro, affinché divenga “zero” senza più paziente.