IL CONTO E IL RACCONTO DELLA VITA: LA NARRAZIONE INTELLETTUALE. NON C'È PIÙ STORY TELLING

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psicanalista, presidente dell’Associazione “La cifra” di Pordenone

Quando i sociologi parlano di modernità, l’associano al pluralismo sostenendo che oggi, rispetto all’antichità in cui la vita era segnata da circostanze sociali e familiari senza alternativa, l’uomo è libero di scegliere. Secondo questo stereotipo, la modernità implicherebbe la possibilità e la padronanza sulla scelta. Questo concetto è stato avallato e supportato dalle nuove tecnologie, investendo anche il modo di intendere la comunicazione. Infatti, la comunicazione è immediatamente associata al web e al concetto di rete, intesa come diffusione orizzontale delle informazioni a cui “ognuno” potrebbe accedere per esercitare una scelta.
Questo criterio di orizzontalità e libero accesso ha investito anche altri ambiti della vita, come la famiglia, l’azienda, la politica, portandovi l’idea della condivisione, dell’uguale sociale, della conformazione, e avallando il fantasma di omologazione. Tutto ciò anche come tentativo di metterlo in contrapposizione con l’autorità, e con l’auctoritas. Ma è questa la modernità? Quali sono le implicazioni nel considerare la modernità come possibilità di scegliere ciò che si vuole? Questa padronanza sulla scelta fornisce il fondamento della credenza che la società sia circolare, ovvero un contenitore in cui ogni cosa può essere messa in comune, fatta circolare, essere condivisa. Allora, di ogni cosa o persona noi potremmo dire che appartiene o non appartiene a quel circolo. E questo, per alcuni, risulta rassicurante. La scelta di condivisione della macchina, della bicicletta, o addirittura del tempo, viene proposta come novità assoluta, portatrice di nuovi valori, di nuove idee, di nuovi sentimenti. E tuttavia, nonostante questa idealità, proprio la rete mette in evidenza elementi molto marcati di conflitto sociale: il web, che dovrebbe essere l’emblema della condivisione, dell’orizzontalità, dell’accesso diretto e della fratellanza, diventa il terreno dove risalta quello che viene chiamato hate speech, cioè il discorso dell’odio, con tutti i suoi arcaismi.
In questa comunità naturale fondata sulla condivisione, dove in realtà prosperano l’intolleranza e l’invidia sociale, la cura dell’immagine diventa fondamentale. Intendere la modernità come progresso, in antitesi a ciò che sarebbe vecchio, implica una negazione del tempo e una comunità che fa cerchio. E il cerchio è la negazione assurda del tempo, assurda perché non riesce. Secondo questa mentalità, l’immagine deve significare, essere il segno dell’appartenenza o della non appartenenza, secondo criteri standard. Quanti investimenti, quanti corsi, quanto tempo vengono impiegati per costruire e mantenere un proprio profilo che, oggi più che mai, diventa la definizione di un’identità? Ognuno costruisce un profilo e diventa quel profilo. Tutto sembra ruotare attorno alla prosopopea della rappresentazione di sé, una tentazione sostanziale. Pros ops, il volto davanti: la prosopopea è il personaggio stesso. Così, da un lato regna un fantasma di onnipotenza e, dall’altro, s’innesca un contraccolpo depressivo se qualcosa interviene a macchiare e a deturpare quell’immagine. Basta un equivoco, un “mi piace” in più o in meno perché anonimi grafomani si scatenino con valanghe di messaggi aggressivi, insulti e offese.
La gestione del profilo è uno degli scopi di quello che viene definito storytelling. Se la modernità è la fantasia di poter scegliere, la differenza non è più differenza assoluta (per cui ciascuno è caso unico), ma differenza per esclusione o inclusione, differenza da. Questo rende necessario trovare gli escamotage per differenziarsi. Lo storyteller, con la valigetta degli strumenti per insegnare a differenziarsi, arriva puntuale. Anche il mercato del lavoro sembra pervaso da questa mitologia. Molti giovani che cercano di avviare nuove imprese vengono presi da questa ideologia della rappresentazione di sé, della vendita di sé e si preoccupano della reputation risk: il rischio di impresa cede il passo al rischio di reputazione, un nuovo moralismo non più controllato da istituzioni come la Chiesa o la famiglia, un moralismo controllato dal sociale, ovvero convenzionale. Si diffondono i manuali dedicati al personal branding per gestire la propria immagine come se fosse una marca. In questo modo, la nostra società è impegnata quotidianamente nella pratica dell’autosorveglianza, la fantasia di controllo in nome della quale ognuno passa il tempo a controllare il proprio profilo e il profilo dell’altro, per verificare i movimenti degli amici o dei familiari (ad esempio con la app “Trova amici”), per sapere anzitempo chi sarà o non sarà presente alla tale festa o nel tal luogo. Se la sorveglianza è diventata pratica quotidiana, come sorprendersi del numero crescente dei casi di panico? Il panico interviene proprio a sottolineare che non c’è possibilità di scelta, che non c’è padronanza sul due e sul tempo e che l’accesso non è mai diretto. Non c’è orizzontalità, non c’è familiarismo, non c’è conoscenza, nemmeno dello spazio.
L’idea della condivisione è semplicemente impossibile. Ha come contrappasso l’anfibologia per cui da un lato partecipiamo alla società globalizzata e dall’altro viviamo di piccoli mondi, ristretti, circolari, che dovrebbero avere una lingua comune. Ognuna di queste community ha il suo storytelling costruito apposta per tenere fuori la parola, la sua libertà e la sua provocazione. La community ruota attorno a un frammento ben definito e condivisibile, e ogni frammento viene tenuto ben distinto dall’altro, in modo tale che non ci sia l’Altro, il terreno dove sta la novità. E così prospera l’eroismo della frazione, secondo il fantasma geometrico: occuparsi di una cosa e non dell’altra, nella famiglia o nell’azienda. Poi, invece, rispetto al fantasma algebrico, c’è l’eroismo che si alimenta della rottura: rompere con tutto quello che sta prima e fondare un nuovo ordine, creando sempre delle cose “nuove” che non abbiano niente a che fare con le “vecchie”. Questi due eroismi sono molto praticati, sono divenuti mentalità promosse dalla moda dello storytelling. Ma l’eroe che divide o che rompe non racconta. Fa l’eroe del format, del formato spettacolare. Il racconto si fa dell’anomalia, ha come condizione la provocazione, esige l’Altro, l’inedito, e, pertanto, non si fonda sulla frammentazione o sulla rottura. Ciò che è definito storytelling è una narrazione drogologica, che nega il racconto, perché è senza tensione narrativa. In questa accezione, lo storytelling ha la funzione della cartella clinica, fa la diagnosi e prescrive il medicamento, cioè la soluzione. E il fine è sempre la realizzazione di sé. “Il potere dello storytelling è plasmare la propria realtà, è l’arte di emergere e farsi notare”. Così recita uno dei tanti manuali di storytelling che hanno questa finalità: promuovere narrazioni costruite ad hoc per il riconoscimento sociale, il consenso sociale e l’approvazione sociale. Per lo spettacolo.
Anni fa l’arte e la cultura venivano ritenute inutili e molto distanti dalla realtà dell’azienda, poi ci si è resi conto che soltanto con i numeri e bilanci non si comunicava, non si trasmetteva, non si vendeva. E quindi è sorto l’interesse per il racconto. Molte aziende hanno incominciato a far scrivere la propria storia. Il disagio è sempre domanda intellettuale, quindi, dobbiamo considerare questo interesse per la comunicazione da parte delle aziende come un’istanza intellettuale e originaria. Purtroppo, come spesso accade con il disagio, la domanda viene colmata con la risposta pronta, con il pacchetto, con lo psicofarmaco. Nelle storie aziendali troviamo scritto che non si poteva più proseguire con la sola contabilità perché si vive di storie e, quindi, vanno valorizzate la storia e il racconto. Questo è vero, tuttavia lo storytelling propone un racconto finalizzato a raccogliere dati da leggere comunque contabilmente, per esempio per contabilizzare i like, i consensi e le risposte positive. Questa soluzione non comporta una vera elaborazione del fantasma di contabilizzazione, che viene semplicemente aggirato. Per questa ragione, alcuni imprenditori sprovveduti ritrovano confermata, sotto forma di like, di consensi e risposte positive, quell’idea di contabilizzazione cui non riescono rinunciare.
Ma le cose procedono dalla questione aperta, ovvero dal nodo. Attraverso la lettura delle più importanti opere letterarie, constatiamo che la narrazione procede da quello che i tecnici della narratologia chiamano il “conflitto”, trasformato così in rappresentazione del nodo, cioè della relazione, dell’inconciliabile, della questione aperta. E il romanzo, con la tensione narrativa che lo caratterizza, procede dall’impossibile soluzione del nodo, mentre lo storytelling presume di risolverlo. Nel caso delle imprese, per esempio, le indicazioni che leggiamo nei manuali di storytelling sono: bisogna capire che cosa si vuole dire, selezionare il materiale, stabilire se il destinatario è interno o esterno all’azienda, per esempio, se è un collaboratore o un cliente e se va conquistato o convinto ad andarsene. Tutto definito, tutto risolto. Come far passare per racconto lo storytelling?
Freud si è interessato ai poeti, agli scrittori. Anzi, diceva che i poeti sono alleati preziosi per lo psicanalista e che proprio attraverso la lettura delle grandi opere letterarie è riuscito a formulare alcune novità. La psicanalisi e la cifrematica si avvalgono della lettura delle opere degli scrittori e dei poeti, ma anche delle testimonianze degli imprenditori, perché in esse c’è l’istanza di valorizzazione dell’anomalia, che non può essere corretta, inquadrata secondo lo standard per ottenere consenso. Non credo proprio che Dostoevskij e Proust cercassero il consenso. Chi cercava il consenso poteva essere un certo Anthony Trollope, uno scrittore inglese dell’ottocento, il quale vendeva tantissimo, ed era molto noto. Ma, terminata l’epoca, l’interesse per i suoi libri è andato scemando, perché lui era grandissimo produttore di storie secondo gli schemi standard dell’epoca in cui è vissuto.
Affinché qualcosa resti, è indispensabile la valorizzazione della particolarità e dell’anomalia. I tecnici coinvolti per scrivere il caso aziendale, nella maggior parte dei casi, producono testi che non vengono letti, se non per dovere. Sono forme di metanarrazione ideologica, ridondante e inutile. Il racconto non mette in ordine il vissuto, non riproduce il vissuto, ma inaugura l’avvenimento. I testi prodotti dallo storytelling non comportano l’avvenimento, tantomeno l’evento. La proposta dello storytelling risponde al fantasma di riscatto sociale, genealogico, all’idea di realizzarsi, di differenziarsi, per affermarsi. Operazione vana. Il conto e racconto della vita, indispensabili per la riuscita dell’impresa, comportano una tessitura inedita dove sorge la novità, perché si fa di impensabile e inimmaginabile. In breve, nonostante tutto lo sforzo che possiamo fare, nonostante tutta la buona volontà, non viviamo di storytelling. Ogni proposta ideologica segna un’epoca, e non ha altra chance. Invece, il conto e il racconto della vita vincono sempre. Senza alternativa. Lo storytelling è utilizzato per finalità finanziarie, che risentono della contabilizzazione, non del racconto. Altra cosa la valorizzazione finanziaria instaurata dal racconto, immune dall’euforia e dalla disforia, senza più paura del toro o dell’orso.