COME L’ARTE E L’INVENZIONE GIOVANO ALLA CITTÀ E ALL’IMPRESA DELL’AVVENIRE

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psicanalista, cifrematico, direttore dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Il mercato è sempre stato un dispositivo per lo scambio, non soltanto di merci, ma anche di cultura e di civiltà. E, attorno al mercato, nascevano le città. Come la storia c’insegna, una società che si chiude nell’autosufficienza o si burocratizza (come avvenne all’impero romano con Diocleziano) entra nella decadenza e diviene facile preda d’invasori che costringono gli abitanti a ritirarsi in un fazzoletto di terra, riducendosi a un’economia di sussistenza, in cui le invenzioni si diradano sempre più.
Mentre, d’altra parte, le città dove sono nati i più grandi capolavori e le più grandi invenzioni di tutti i tempi sono quelle che hanno tratto linfa vitale dagli scambi commerciali. Nell’ultimo scorcio del primo millennio d.C., per esempio, grazie ai mercanti ebrei maghrebini, che si erano insediati lungo le coste meridionali del Mediterraneo e della Sicilia, l’Europa era uscita dall’autosufficienza. Questo aprì il varco perché in seguito potessero sorgere città come Pisa, Firenze, Genova, Lucca, Milano, Venezia, emblemi di città mercantili, dove la cultura e l’arte incontrarono quel terreno fertile che avrebbe trovato la sua massima fioritura nel rinascimento. Fu proprio un mercante pisano residente in Nord Africa, Leonardo Fibonacci, a portare all’attenzione degli europei il nostro sistema numerico decimale di origine indo-araba, con la pubblicazione nel 1202 del Liber Abaci, il primo vero trattato di aritmetica e algebra, senza cui la maggior parte delle cose che avvengono nella nostra giornata e che esigono il calcolo non potrebbero avvenire.
Ma, se è vero che la città e la civiltà prosperano grazie allo scambio, come possiamo scindere lo scambio commerciale da quello culturale e artistico? È un pregiudizio platonico quello che pretende di tenere separate la cultura e l’arte dall’economia e dalla politica: Platone situava gli artisti e i poeti fuori dalle porte della città, in quanto posseduti dal daímon, il demone della creazione, quindi incapaci di esercitare la padronanza su loro stessi, come invece sapevano fare i filosofi. Purtroppo, ancora oggi, sono tanti coloro che considerano il cammino artistico come una discesa agli inferi, per cui l’opera d’arte sarebbe frutto di sofferenza iniziatica. E sono ancora tanti gli artisti che s’identificano con il demiurgo gnostico e pensano di dovere dare forma alla materia come il demiurgo diede soffio vitale a una materia presunta inerte per creare l’universo. Per questo si continua a parlare di “creatività” e di “creazione artistica”. Ma l’arte e l’invenzione, che sono costitutive della città, non sono creazione dal nulla, procedono dall’apertura, si nutrono dello scambio e dell’incontro, sono arte e invenzione nella parola, intervengono parlando, scambiando idee, raccontando, leggendo, sognando, quando meno ce lo aspettiamo, per un equivoco, per un lapsus, per uno sbaglio di conto e per un errore di calcolo.
Una città senza arte e invenzione sarebbe una città triste, senza il sogno e la dimenticanza, senza l’equivoco, quindi senza l’umorismo, senza la differenza, quindi senza il motto di spirito, e senza il malinteso, quindi senza il riso. Sarebbe la città dell’identità, la città senza l’Altro, dove regna la linea di demarcazione fra bianchi e neri, buoni e cattivi, belli e brutti. Purtroppo, è questa la città che ognuno abita quando, anziché instaurare dispositivi di arte e d’invenzione nella propria giornata, si occupa del vicino, si preoccupa della posizione sociale e si adopera per scavalcare il concorrente o per eliminare il presunto nemico. In un’intervista pubblicata sul sito del Comune di Modena, Michela Iorio chiede a Emilio Mazzoli: “L’attività espositiva della sua galleria è sempre stata aperta alle novità. Crede che questo l’abbia distinta dalle altre?”. E lui risponde: “Io ho sempre creduto nel fare, che si trattasse di novità o meno, e non ho mai pensato di dovermi distinguere dalle altre gallerie”.
Nel fare, facendo, ciascuno trova il valore assoluto, non un valore relativo, riferibile a una presunta scala sociale, in questo caso, delle gallerie d’arte. Questa accezione di valore come qualcosa di relativo, soggettivo o personale, anziché come qualcosa che procede da ciò che si fa e si conclude, è una trappola. Se il valore diventa opinabile, allora, ognuno trascorre la vita a difendere il proprio presunto valore, a cercare di valere e di farsi valere sempre di più, di acquisire prestigio sociale, di entrare nei circoli giusti e, se ciò non accade, si sente rifiutato. Così, intanto non fa, non viaggia e si limita a circolare, senza un progetto e un programma di vita.
L’arte costringe a riflettere su un’altra accezione di valore, quella che concerne l’opera e che nessuno può stabilire a priori, anzi, nessuno può stabilire. Quanto vale la Gioconda? In una trattativa si stabilisce il prezzo di un’opera, non il suo valore, che dipende da infiniti fattori, dal viaggio che quell’opera ha compiuto e da quello che compirà in avvenire, dalle mostre che farà, dai testi che saranno prodotti a partire dalla sua lettura, dal racconto e dal mito che essa alimenterà.
Certo, chi produce un’opera d’arte o d’invenzione non può tenerla nel cassetto sperando che qualcuno la scopra e negando il mercato. A questo proposito, notiamo che alcune aziende, sede di invenzioni straordinarie, purtroppo, raramente comunicano con la città e i cittadini. E, ancora più spesso, le istituzioni e i cittadini nutrono pregiudizi verso le imprese, come se fossero luoghi di sfruttamento e di penitenza.
Soltanto parlando, facendo, incontrando interlocutori, ciascuno, indipendentemente dal mestiere che svolge, ha la chance di giungere al valore assoluto, al capitale intellettuale, alla cifra del suo itinerario. Altrimenti, si arrovella tra invidie e gelosie, si barrica nel suo cerchio o nella sua cerchia e non dà nessun apporto alla città e alla civiltà.