LA CURA DELL’INCORRUTTIBILE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

A fine dicembre del 2017, con l’approvazione del decreto legge Lorenzin, la professione di psicologo ha ottenuto il pieno riconoscimento quale professione sanitaria, situandosi così, non senza qualche perplessità degli stessi interessati, in un ambito dominato dalle pratiche che vanno sotto il nome di medicina. Questa decisione, che potrebbe essere lasciata negli angusti limiti delle dispute sui privilegi professionali, è rilevante se considerata un ulteriore indizio della medicalizzazione sempre più imperante in materia di salute e di cura. Fin da Ippocrate (V-IV sec. a. C.), il primo che pretese di distinguere la medicina dalla religione e dalla filosofia, la mitologia medica ha cercato il monopolio sulla salute e il controllo sulle pratiche che se ne occupano: la medicina, distinta in medicina sacra, basata sulla padronanza del medico, e medicina profana, basata sulla possessione della presunta strega, con i suoi medicamenti, non ammetteva che alcuna esperienza concernente la salute potesse sfuggire al suo controllo. Finché con l’Illuminismo, questa disciplina, dichiarata scientifica una volta espunta la religione, avrebbe ribadito il compito che già nel II secolo Galeno assumeva: occuparsi non solo della cura del corpo, ma anche di quella dell’anima, chiamata, laicamente, psiche. Una psiche come corpo spirituale, come mente resa organica, sostanziale, che esigeva quindi la somministrazione di sostanze, chimiche o naturali, per mantenersi in salute. Una salute mentale, cioè sottoposta ai canoni della mentalità dominante. Per questa salute la stessa parola diviene sostanza, benefica o malefica. Applicata a una psiche divenuta sostanza, la medicina ha così supportato l’attribuzione del concetto di malattia alla mente, fino all’invenzione della presunta malattia mentale. Ha istituito un apparato di dottrine e di strumentazioni terapeutiche che, dovendo agire sulla cosiddetta psiche, è risultato un apparato di coercizione e di segregazione dei corpi: la cura della malattia mentale è la negazione della cura e, come notava Giorgio Antonucci, il medico antipsichiatra recentemente scomparso, l’intervento di coloro che se ne occupano è una forma, radicalmente violenta, di controllo sociale e non di cura. Lo testimonia in questo numero il dibattito a proposito del libro La chiave comune, di Giovanni Angioli, che collaborava con Antonucci nel reparto autogestito dell’Ospedale psichiatrico Luigi Lolli di Imola. Sembra distante dalla mitologia medica l’accezione di cura avanzata dalla filosofia, segnatamente da Martin Heidegger in Essere e tempo, secondo cui la cura “determina in generale l’essere dell’Esserci”, un essere che “progetta le sue possibilità”, dinanzi all’essere-per-la-morte. Per Heidegger l’uomo è contraddistinto anzi tutto dall’essere-nel-mondo, ossia dal prendersi cura delle cose che gli occorrono. Ma anche dall’aver cura degli altri, e questo può avvenire con una “forma inautentica” di cura, quando ci si sostituisce a loro nel prendersi cura “intromettendosi al loro posto”, o in una “forma autentica”, quando si interviene “non per sottrarre loro la cura, ma per inserirli autenticamente in essa”, “aiutando l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa”. Così, la cura di sé diventa la base della cura dell’Altro e questo “prendersi cura insieme” non si limita “all’essere-assieme”, ma giunge “all’impegnarsi in comune per la medesima causa”. Questa accezione di cura, che nega il tempo e che pone la morte “come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile” è la base del fiorire di tentativi di riportare la cura alla filosofia, di considerare la filosofia come la “cura dell’anima”, per esempio attraverso la consulenza filosofica, la cura del dialogo che non mirerebbe a guarire il disagio, ma a convivere con esso. Fino alla morte, con cui occorre familiarizzarsi, perché, come scrive Moreno Montanari, “se utilizzeremo la vita per prepararci alla morte questa ci renderà il favore preparandoci alla vita già adesso, per non apprezzarla solo quando ormai è troppo tardi”. Quale progetto, quale divenire, in una vita in funzione della morte, in cui, come dice Heidegger, “l’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa”? La cura nell’accezione filosofica non si oppone alla medicina, ne ha da sempre costituito il presupposto. Già Plutarco nel De tuenda sanitate praecepta scriveva che filosofia e medicina “attengono a un solo e identico campo”: la condizione patologica, che diverrà condizione del corpo malato, è prima di tutto sofferenza, patimento, passione dell’anima, secondo la filosofia, quel pathos che i latini chiamavano affectus, affezione, e che diventa morbus quando l’affezione prende radici nel corpo e nell’anima. La filosofia è da sempre psicoterapia, postula l’anima come vera sede del pathos e luogo della sua cura. Per questo, pensare che la psicanalisi possa uscire dall’egida della psicoterapia e della medicina, facendosi portatrice del concetto filosofico di cura, aggiunge fantasma al fantasma: non a caso Galeno scrisse un’opera dal titolo La cura delle passioni dell’anima; e, come scrive Michel Foucault nel libro La cura di sé, “un medico come Galeno ritiene di sua competenza non solo guarire i grandi perturbamenti dello spirito [...] ma anche curare le passioni e gli errori”. Trovare la causa del disagio nel pathos filosofico, nello psichismo, offre ulteriore spazio alla mitologia medica: non può che essere la medicina a assumersi nel modo più risolutivo, più consono allo spirito dell’epoca odierna, cioè idealmente, la professione di “prendersi cura” di sé e dell’altro, la cura come studium e preoccupazione di sé e dell’altro cercata dalla filosofia. La cura con il daímon, la guida psichica, l’iniziatore che, attraverso la conoscenza, mira all’esame e alla presa di coscienza. La cura del nulla. Rientrano nella cura del nulla l’altruismo e l’appello all’unità con gli altri e con la Terra cui si rifanno le dottrine economiche del nulla, come il buddismo e le altre dottrine politiche (più che religiose) orientali, che fondano la cura di sé e dell’altro sulla compassione di sé e dell’altro: il Dalai Lama, citato da Clair Brown nel libro L’economia del Buddha, afferma che “la felicità è data dalla pratica della compassione”. Sotto l’egida dell’orientalismo, l’interdipendenza, la cooperazione, la condivisione, l’empatia divengono i mantra della religione laica che percorre il pianeta. Dall’”I care” di Don Lorenzo Milani al “Together we can” di Barak Obama, passando per Dario Fo: “(l’intellettuale progressista) deve provar pena per le pene altrui” (“Micro- Mega”, 6, 2013). L’idea di pena è idea di morte, idea del nulla. E la compassione è la patologia resa sociale. Pena e compassione non hanno nulla da spartire con la pietas romana e quella cristiana. Spetta alla cifrematica, la scienza della parola e non dell’essere o del dialogo, porre le basi della vera cura, la cura non debitrice dello psichismo, cioè dell’idea dell’essere, dell’idea del pathos, dell’idea della morte, dell’idea del nulla, su cui poggiano filosofia e medicina. La cura che non comporta partecipazione e compartecipazione, passione e compassione: nessun impegno comune, nessuna conoscenza (cum scientia), nessun peso condiviso (cum munus), nella parola originaria, libera, leggera in cui si instaurano gli statuti intellettuali e non professionali di cifrante e di cifratore. Con la cifrematica la conversazione non è condivisione: questo assioma indica che il tempo nella parola non conduce alla morte, che il trauma stesso è l’irruzione di un altro tempo, non la fine della salute. Parlando, le cose non trovano l’essere, ma esigono il pragma, il fare: le cose, dicendosi, si fanno. La parola agisce, non le idee: la cura esige il fare nella parola, non basta un mutare delle rappresentazioni della realtà, come vorrebbe la cura filosofica, che non a caso inneggia al pentimento. Il tempo che governa le cose non è prima della parola, che ne sarebbe la rappresentazione: se il fare è nella parola, il tempo nella parola interviene facendo, e il divenire è effetto pragmatico, senza riferimento al negativo. La vera cura non è la cura “autentica” heideggeriana, non accomuna, non è condivisione perché è cura del tempo, del taglio, della divisione che interviene nel fare, parlando, raccontando, narrando. La cura esige il fare narrativo, perché l’intervento del tempo dissipa la condivisione del peso, esclude il munus: l’immunità, l’assenza di munus, del farsi carico, è del tempo, facendo. Senza il fare, incompatibile con ogni psichismo, anche sedicente psicanalitico, nessuna immunità, base della vera cura. Nessuna cura in assenza di immunità, che non è già data, che non dipende da un sistema (il cosiddetto “sistema immunitario”), perché interviene nel dispositivo immunitario, nel ritmo del fare. Impossibile combattere i “segni del tempo”, i segni della visione e della mentalità, la cura non è rimedio contro i segni del tempo perché il tempo esige la tripartizione del segno: la struttura del pragma è una delle tre strutture del segno, che impediscono che il segno venga ridotto a significante, che il segno significhi, che si faccia sintomo, supportando la dicotomia misterica latente/manifesto, absconditus/revelatus. La cura non dipende dall’impegno. La cura che dipenda dall’idea di impegno dipende dalla volontà di bene, che la confonde con l’assistenza e la protezione, con il prendersi cura cui si dedicano professionisti e funzionari sotto l’egida dell’altruismo. L’altruismo sopprime, idealmente, l’Altro perché attribuisce all’Altro il male che deve essere economizzato. Negando la cura, ogni eutanasia è il colmo dell’altruismo. Come indicano le testimonianze degli imprenditori in questo numero, la cura dell’impresa, della città, di ciascuno va oltre l’impegno perché è cura dell’Altro, non sull’Altro, in quanto cura del tempo, non sul tempo. Cura in cui l’Altro e il tempo intervengono nella parola facendo, non sono al di fuori della parola, delle mura, dei confini, quindi non devono essere esclusi o inclusi. Le buone pratiche, le pratiche d’inclusione così in voga nello storytelling dell’epoca, negano la cura dell’Altro perché devono rispettarlo, assimilarlo, riportarlo all’unità con un’opera di mediazione che esclude la divisione, perché rappresenta le diversità per economizzarle, utilizzarle, fino a sfruttarle (come accade con gli immigrati) secondo la volontà di bene, cioè per il loro e il nostro bene. La volontà di bene trae alla cura del nulla. La vera cura non porta alla conoscenza, tanto meno della malattia, del fantasma, dello psichico. Non abbisogna dell’idea di guarigione, che postula un’immunità d’origine, naturale, sociale venuta meno e da ripristinare, una volta conosciuto e tolto il male. L’idea di guarigione supporta il sistema della salute pubblica, della cura sociale e politica che agisce in nome dell’economia della corruzione, arma di ogni totalitarismo. Lo indica il libro di Dario Fertilio, Il virus totalitario che a Bologna ha suscitato il dibattito pubblicato in questo numero. Ogni totalitarismo si prende cura della salute pubblica, con ogni mezzo. Con la cifrematica, la cura esige il fare, non l’economia della corruzione, poggia sull’incorruttibile, il tempo, e sull’immunità, una sua proprietà nei dispositivi di parola, dispositivi pragmatici, dispositivi di ricerca e d’impresa. L’itinerario cifrematico è in direzione della salute non pubblica, la salute di ciascuno, perché mira alla qualità, con un processo di valorizzazione che, procedendo dal ringraziamento, anziché dal pentimento, esige la restituzione, non il ripristino o la redenzione.