LA CURA, FACENDO

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imprenditore, Officina Bertoni Dino Srl e Officina Meccanica Bartoli, Modena

Lei ha un’esperienza di oltre vent’anni nella meccanica di precisione, ma anche un interesse intellettuale che l’ha portata a leggere autori di logica matematica, filosofia, fisica e cifrematica. In che modo possiamo dire che interviene la vera cura, come recita il titolo di questo numero del giornale, nella sua ricerca e nella sua impresa? Sono veramente tanti i filosofi che hanno cercato di definire la cura, fino al famoso saggio di Martin Heidegger intitolato proprio La cura.
Ma quando penso alla vera cura penso al nous (l’intelletto, l’intelligenza insita nell’infinito) del filosofo greco Anassagora (Clazomene, 496 a.C. – Lampsaco, 428 a.C. circa), insieme a ciò che sant’Agostino dice del tempo: “Se mi chiedete che cosa sia il tempo, non lo so, se non me lo chiedete lo so”. Come il tempo, come il nous, la cura non può essere definita, tanto meno relegata nell’avere cura o nell’essere cura.
Constato, invece, che la cura è nel fare, nell’impresa: facendo, ciascun giorno, la cura interviene, ed è come una specie di ragione insita nelle cose, una ragione di cui non sappiamo nulla finché non ci troviamo a farle. Non a caso, Anassagora sottolinea in particolare la centralità dell’esperienza nel processo intellettuale e afferma, anticipando Leonardo da Vinci, che, senza l’esperienza, nessuna scienza è possibile.
Per il filosofo greco le acquisizioni avvenivano attraverso le sensazioni provocate dagli oggetti, che lasciavano la loro impressione nella memoria, la quale andava a costituire la sapienza, da cui poi scaturiva la tecnica, ovvero la capacità di utilizzare le acquisizioni per costruire e modificare gli oggetti. E la tecnica si basava soprattutto sulla manualità, tanto che Anassagora riteneva che fossero state proprio le mani gli organi che avevano dato all’uomo la superiorità sugli animali.
A proposito della ragione insita nelle cose, cui lei accennava, Armando Verdiglione, nel n. 35 della rivista “Il secondo rinascimento”, scrive proprio: “Tra il fare e la scrittura del fare c’è la cura della ragione. Non nel senso che la ragione debba essere curata, ma la cura propria alla ragione”. Lei ha esperienza di una cura della ragione nelle piccole imprese artigiane modenesi? Mio nonno, nel 1961, non aveva nulla, ma riuscì a racimolare un piccolo prestito dai parenti e, insieme a suo fratello, aprì una piccola officina, l’Officina Meccanica Bartoli, oggi rinomata per la maestria con cui esegue le lavorazioni più difficili e particolari. Il mio è soltanto uno dei tanti esempi disseminati nel nostro territorio. Le storie degli artigiani modenesi sono molto simili fra loro e ormai appartengono al passato, sono storie di persone che, senza neppure un minimo capitale iniziale, hanno intrapreso un’attività che ha consentito loro di vivere dignitosamente, spesso impiegando altri componenti della famiglia, e di sviluppare un tale livello di competenza tecnica da rendere il made in Modena un valore aggiunto riconosciuto in tutto il mondo. Ma se, da una parte, la cura dell’impresa era la cura come modo di alimentare la ragione, l’intelligenza e la tecnica, dall’altra, spesso l’artigiano si dedicava alla sua azienda in modo così forsennato da trascurare tutto il resto, compresi i propri interessi e quelli della famiglia. Così, si metteva in un percorso che era lontanissimo dalla vera cura. E in questo senso sant’Agostino ci ricorda che la cura non sta nell’affanno e nella preoccupazione e che la tranquillità non può instaurarsi se si predilige qualcosa a scapito di qualcos’altro.
L’investimento e il rischio non devono comportare la preoccupazione, altrimenti il viaggio diventa pesante e l’attesa dei risultati una spada di Damocle. Occorre attenersi al programma giorno per giorno, facendo ciascuna cosa, senza pensare di avere davanti tutta la giornata o, al contrario, di non avere abbastanza tempo. L’azienda che ho rilevato tre anni fa, la storica Officina Bertoni Dino Srl, mi ha insegnato che la questione non è quanto tempo l’imprenditore lavora, ma come lavora nei tempi che egli stabilisce insieme alla squadra e fino a che punto è in grado di far lavorare tutti insieme nei tempi assegnati per ciascuna attività.
Perché è importante che il tempo libero non si riduca alle ore necessarie per mangiare e dormire: non siamo bestie da soma e, tra l’altro, le idee più utili per il lavoro arrivano spesso nel tempo libero.
È un approccio raro, ma indispensabile per l’arte e per l’invenzione, quello che considera ciascuna cosa come essenziale alla giornata e al viaggio della vita. Le persone più interessanti che ho incontrato sono quelle per cui la cura non viene mai meno, pertanto non mettono le cose su una scala gerarchica.
Queste persone riescono a fare in modo che se, per esempio, devono curare una gastrite, diventa un’occasione per mettere in discussione le proprie abitudini alimentari e così evitano che si ripresenti il disturbo.
Queste persone procedono dall’apertura, quindi, per integrazione, anziché per contrapposizione o cercando la conciliazione degli opposti… Una delle cose più affascinanti della cifrematica è la capacità di capire e accogliere l’ossimoro: positivo- negativo, alto-basso, bello-brut- Aleksej Vasil’evič, L’aurora del mondo, olio su tela to, piano-forte non sono opposti né complementari, coesistono, per cui ciascuna cosa ha il suo bello e il suo brutto, nulla è a senso unico. Questo è importante nell’impresa, perché l’impresa non può privarsi di alcuni aspetti della realtà come se fossero negativi: la realtà, nell’impresa come nella vita, è complessa, la differenza e la varietà sono all’ordine del giorno e non sono né positive né negative. Chi si concentra soltanto su un aspetto rischia di fare come l’ipocondriaco che prende la medicina prima di avere il sintomo, vive costantemente sotto antibiotico e nel terrore del male e delle malattie, quindi, ha una percezione incompleta della vita. Spesso, chi ha trascorso la sua vita non tanto ad accumulare, ma a lavorare non ha più la percezione della ragione delle cose, non riesce a capire se qualcosa è effettivamente produttivo. Sono molti gli esempi di aziende che avevano tanto lavoro eppure sono fallite, perché non basta lavorare, in un’impresa occorre tenere sotto controllo una serie infinita di fattori e occorre un programma preciso. Le piccole aziende che non sono riuscite a rimanere in piedi durante la crisi sono quelle che non avevano una direzione e non erano in grado di calcolare tutti i fattori che intervengono nella gestione di un’azienda oggi.
Anche questo fa parte della cura.
Certo, il viaggio della vita è sia ricerca sia impresa, non si può eliminare la ricerca, che vuol dire coltivare i propri interessi culturali, artistici e scientifici, senza però segnare un confine netto tra il dentro e il fuori l’azienda. Soprattutto se l’azienda non è intesa come un luogo, chiuso fra quattro mura, ma una serie di incontri che sono occasione per instaurare dispositivi con i clienti, i fornitori e gli stessi collaboratori… Se devo essere sincero, a me è sempre piaciuto lavorare, per me il lavoro è davvero felicità, però non è tutta la felicità. La felicità, come la vita, è un grande mosaico e ci sono tante tessere che possono concorrere a fartela apprezzare ed essere soddisfatto del modo in cui stai dirigendo la tua nave, la tua vita. Ma se c’è una cosa proprio lontana dalla cura è lasciarsi trasportare dalle cose, anziché anticiparle.
Alcuni non riescono a fare quella pausa indispensabile per ripartire con il piede giusto. Invece è una cosa necessaria continuamente, non si può fare una volta per tutte, dev’essere costante.