PERCHÉ IL VENTO DISSIPA LA PAURA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Quando qualcosa non va o non funziona, quando le cose precipitano o girano in tondo, quando sembra spalancarsi l’abisso, la tentazione di abbattersi, di colpevolizzarsi, di punirsi, di criminalizzarsi è comune, anzi è d’obbligo. La pena, la colpa, il crimine sono da sempre funzionali alla riuscita sociale, che deve passare attraverso un percorso e un cammino sacrificali, attraverso l’iniziazione, la purificazione, la redenzione. In Occidente come in Oriente: nella Cina del terzo secolo a.C., regnante la dinastia Qin, l’imperatore Shi Huang Di, che avviò i lavori della Muraglia cinese, esercitò una persecuzione verso il taoismo e il confucianesimo che culminò con la strage di 460 studiosi confuciani sepolti vivi e con l’incendio dei loro libri nel 213 a.C. La dinastia Qin regnò poco più di un decennio e la successiva dinastia Han fu benevola verso le scuole diverse e, soprattutto, la scuola confuciana, che fu riconosciuta nel 143 a.C.
come principale scuola dello stato. Così la riuscita diventa religiosa, sociale, condivisa: la persecuzione funzionale all’istituzionalizzazione, prima lo sterminio, poi il trionfo.
Il vento cambia, il vento gira, è cambiato il vento: il girare del vento diventa il segno del passaggio dal male al bene, dalla morte alla vita. “Prima o poi il vento cambierà, la ruota gira”: così il girare del vento, il suo andare e venire di cui parla il Vangelo di Giovanni diventa funzionale alla ciclicità, alla metamorfosi, al passaggio dal male al bene, al passaggio dalla morte alla vita, dove la morte non serve a morire, ma a rinascere.
E tutto diventa illusorio nel ciclo buddista delle rinascite o tutto vano nei giri del vento dell’Ecclesiaste: il vento come nome del nulla, perché la riuscita sia fare cerchio o far quadrato, anziché fare, produrre, scrivere. Il vento del fare, la scrittura del vento.
Laozi, autore del Tao Te Tching, testo base del taoismo, scrive: “La virtù del sovrano è come il vento, la virtù del popolo è come l’erba: l’erba si curva quando passa il vento”. Qui il sovrano è come il vento, ma non perché imprevedibile e ingovernabile come il vento. Qui il vento serve a curvare l’erba, il vento curva l’erba e l’erba si curva con il vento: la coppia vento-erba fonda la coppia sovranità-popolo, come se la sovranità avesse bisogno del popolo per esistere, perché l’idea di popolo trovi un fondamento.
Finché, con il giacobinismo avviato da Rousseau e compiuto dalla Costituzione italiana, il popolo è sovrano: sovrano è chi vuole il bene, il popolo vuole il proprio bene, il popolo piega il popolo, come il vento l’erba. Con passione e con pazienza. Giobbe: “Sappiate dunque che Dio mi ha piegato e mi ha avviluppato nella sua rete”.
Senza l’idea di bene, senza l’idea di sacrificio, la sovranità è della parola, è virtù del principio della parola e dei suoi elementi.
Non c’è tribunale, carcere, popolo che possa confiscarla. Sovranità della particolarità, sovranità della scrittura, sovranità della struttura, sovranità dell’industria, dunque sovranità della nazione. Se il populismo contro il privato e contro il profitto potesse togliere, idealmente, l’industria, perderemmo la sovranità, perché verrebbe meno la nazione. Importa la nazione intellettuale, non la nazione sociale, il nazionalpopolare, il nazionalsocialismo con il suo sovranismo, con il suo giustizialismo in nome del popolo. Dalla sovranità sul popolo al popolo che diventa sovrano: rivoluzione circolare, il vento che circola, i giri del vento diventano cerchi, vortici, turbini.
Ancora Laozi: “Essere di poche parole è secondo natura, perché un turbine di vento non dura tutta la mattina, un acquazzone non dura un giorno intero”. Qui la parola non è sovrana, deve sottomettersi alla natura, è “secondo natura”. E questa natura così ovvia, così naturale, vuole che la parola sia poca: poca perché il turbine di vento non dura tutta la mattina, perché l’acquazzone non dura un giorno. Ecco ancora una volta il vento usato in modo ideologico: il vento è commisurato all’idea di durata, è un modo di rappresentare la forza nel tempo, la forza che può finire, il tempo che finisce. Un turbine, un acquazzone. “Turbinem metent”, “raccolgono tempesta” (Libro di Osea, 8,7). Il vortice, il turbine, l’acquazzone, la tempesta, la bomba d’acqua durano o non durano. Ma il vento non è una bomba, il vento si attiene alla costanza, costanza della forza, costanza del tempo, costanza del ritmo nella parola. Così il va e vieni del vento - Il vento va e poi viene è il titolo del romanzo di Vladimir Bukovskij - non può mai essere fermato, anche se non si localizza, non stabilisce quel che è sottovento o sopravento, non premia chi ha il vento dalla sua parte. E nessuno può fare il bello o il cattivo tempo, sarebbe il vento come animatore, come spirito, come soffio, come pneuma: nel versetto di Giovanni “Il vento soffia dove vuole e ne odi la voce, non sai da dove venga o dove vada, così è chi è nato dallo Spirito” (3,8), “pneuma” vale sia come “spirito” sia come “vento”. Ecco il vento strumento dell’animazione, che “tira su” o “butta giù”, che “gonfia” o “spompa”.
Il vento psichico, il vento circolare, il vento cosmico, il vento al servizio del nulla.
Il vento costante nel suo va e vieni non è rettilineo né circolare, è il vento della parola originaria. Il vento del labirinto, il vento del paradiso, il vento delle galassie.
Nei Rigveda, la parola (vac) dice: “Io spiro come il vento, impossessandomi di tutti gli esseri. Con la mia grandezza ho varcato i confini del cielo e di questa terra” (X, 125).
Ma questa vac indiana non è la parola originaria, è la parola cosmica, divina, la parola della padronanza e della possessione.
Il vento della parola originaria non è prevedibile, non è gestibile, non è orientabile, ma non possiede, non domina, non soggioga. Il navigante non può fare nulla per cambiare il vento, però può inventare dispositivi per trarre profitto dal vento. I dispositivi del vento: dispositivi di parola, di scrittura, di ricerca, d’impresa. Il vento impedisce che il profitto venga criminalizzato: più che al vento del profitto, ciascuno si attiene al profitto del vento, il profitto intellettuale, che è intollerabile per ogni burocrazia, come dimostra la persecuzione contro Armando Verdiglione e la sua impresa culturale.
Combattendo il vento del profitto intellettuale fino alla distruzione di una casa editrice e di una fondazione culturale, la burocrazia segue le folate giustizialiste del senso comune e comunitario, dunque ignora il vento della qualità, che non può allinearsi o fare cerchio, perché spira incessante, si attiene alla spirale, alla sua tendenza, alla sua rivoluzione in direzione della qualità.
Mentre la vac dice: “Io porto la ricchezza a colui che fa l’oblazione, a colui che è zelante, a colui che offre il sacrificio”, il profitto del vento non ha bisogno di sacrificante o sacrificato, dunque di vittima, perché non è premio o castigo. Assurdo sarebbe aspettare il vento favorevole, cioè premiante, per fare. Come notano in questo numero Dante Marchetti e Paolo Moscatti, anche quando sembra che il viaggio sia controvento, o che il vento si sfavorevole, con l’andatura di bolina il navigante può proseguire il suo viaggio. Nessuno può controllare il vento, ma occorre che ciascuno stabilisca condizioni e dispositivi per avvalersi della forza del vento, anche quando sembra sfavorevole.
Non c’è cattivo vento o buon vento, il vento può risultare sfavorevole per la volontà del soggetto, ma è sempre opportuno, favorevole all’itinerario di qualità.
Ancora Laozi: “Come mai sono calmo e imperturbabile? Come il vento, non ho una particolare direzione, tutti hanno un posto o un lavoro, solo io rimango libero, naturale e selvaggio, sono diverso dagli altri e il mio sostegno proviene direttamente dalla madre”.
Secondo lo spirito dell’epoca presente, chi non condividerebbe queste affermazioni, in cui si tratta di stare calmi, di vivere in modo naturale, libero dal lavoro? L’utopia europea, da Tommaso Moro a Karl Marx, trova nell’orientalismo di moda un valido aiuto. Sotto l’egida della madre. Fino alla negazione di una “particolare direzione” del vento, come se il suo andare e venire, i suoi giri, non comportassero un suo verso, una sua tendenza, una sua direzione particolare e specifica. Il dispositivo del vento è proprio il dispositivo di direzione. Questa è la cifratica del vento, cioè come il vento interviene nell’itinerario, mentre l’aritmetica del vento ne coglie la logica, la particolarità.
Così l’Ecclesiaste: “Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana. Gira e rigira. E sopra i suoi giri il vento ritorna”: nessun ritorno circolare, nessun ritorno all’identico, il giro del vento non è il vento che gira, non sono le cose che cambiano, è il giro della pulsione, è la direzione della pulsione, è la rivoluzione, è il rivolgersi delle cose in direzione della qualità. Allora, non bisogna aspettare che il vento giri, che sia favorevole: possiamo trarre profitto intellettuale da ciascuna circostanza, malaugurata o beneaugurata che sia, attenendoci al vento anziché all’ideologia sacrificale. Attenersi al vento non è seguire la scia: il vento non è ciò che è socialmente accettabile, non è quel che va per la maggiore, non è la via facile o la sede comoda.
Laozi: “Il pesce sta nell’acqua e l’aquilone sta nel vento”, ovvero il pesce non può che seguire il corso dell’acqua, l’aquilone non può che seguire il vento. Ma se l’aquilone non può cambiare il vento, il vento non è indifferente all’aquilone, il vento non è la vac. Aquilone da “aquila”, oppure aquilone è il vento stesso, che nell’antica Roma si chiama aquilonis. L’aquilone viene dalla Cina, dove aveva varie forme, in particolare quella del dragone. Dalla Cina entra in Giappone, poi in Corea e in Indonesia, e anche in India, e giunge in Europa nel Rinascimento.
In Afghanistan, ma non solo, avvengono combattimenti tra aquiloni, come narra il libro di Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni.
L’aquilone, il dragone. Come cacciarlo, come prenderlo? Secondo un aneddoto, dopo aver incontrato Laozi, Confucio disse agli allievi: “Io so che gli uccelli volano, che i pesci nuotano, che le bestie camminano per terra; gli animali si possono prendere alla tagliola, i pesci con le reti, gli uccelli con le frecce. Quanto al dragone - diceva Confucio - non ne so niente, so solo che sale al cielo portato dalle nuvole e dal vento. Oggi ho visto Laozi, egli è come il dragone”. Molti storici dubitano che Confucio abbia incontrato Laozi, ma nel suo racconto Laozi è inafferrabile, come il dragone (per i cinesi simbolo di fortuna e prosperità) può essere portato dalle nuvole e dal vento. Nessuna tagliola, nessuna rete, nessuna freccia possono imbriglialo o ferirlo.
Portati dal vento il dragone, l’aquilone, il maestro di Confucio: quel che ci porta nel nostro viaggio è la pulsione, la tensione, la forza che non è ricattabile dalla pena o dalla colpa, che non può essere fermata né imprigionata da nessun sistema burocratico o penale. La forza della parola, la forza intellettuale, la forza del vento, che trae in direzione della qualità. La città portata dal vento non ha più bisogno di iniziazione, di purificazione e di redenzione, per questo non ha più paura.