LO STATO DI SALUTE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Nel libro La Repubblica Platone introduce la distinzione tra “stato sano” e “stato malato, rigonfio di umori malsani”.
Quest’ultimo, secondo lui, è popolato di “gente che non si troverà affatto in città per bisogni necessari”, ovvero che non servirà per uno stato sano: “cacciatori e mimi, musicisti e poeti, impresari e artigiani”.
E poi “molti servitori (diákonoi): pedagoghi, nutrici, governanti, cameriere, barbieri, cuochi e macellai”. Sono servitori in uno stato malsano, in cui non possono mancare “anche i porcari: tutte persone assenti dal nostro primitivo stato, perché là non servivano a nulla, ma in questo qui occorreranno”. Come sorprendersi se “con un tale regime anche i medici saranno molto più necessari di prima”? Comincia così, in nome di un primitivo stato sano, fatto di necessità elementari, naturali, il pregiudizio contro l’arte e la cultura, il commercio e l’impresa, l’istruzione e il governo, la poesia e la cucina.
Fino alla medicina, male necessario: tutti gli aspetti della vita sono segno di degradazione, di malattia, di umori malsani.
La condanna colpisce anche la fantasia, la favola, dunque la parola stessa, che diventa strumento di manipolazione: “dobbiamo sorvegliare gli inventori di favole, accettando delle loro invenzioni ciò che è buono e respingendo ciò che è cattivo. Convinceremo le balie e le madri a raccontare ai bambini solo quelle approvate da noi, e a plasmare con le favole gli animi infantili molto più di quanto modellino i corpi con le mani”.
In ossequio a questa lezione platonica, ancor oggi la distinzione tra stato sano e stato malato è alla base dell’idea dello stato di salute pubblica, ovvero della salute di stato, del plagio di stato, che accetta ciò che è buono e respinge ciò che è cattivo.
La salute di stato, con i suoi standard, con le sue discipline, manca lo stato di salute perché lo confonde con lo stare bene, lo volge in bene sociale. Qual è lo stato di salute dei cittadini, delle aziende, dell’economia? È lo stato che si misura con i parametri del bene sociale più in voga, per esempio il risparmio, la sostenibilità, il multiculturalismo, l’inclusione, il welfare.
I parametri del politicamente corretto, i parametri del nulla. Quel che non si attiene al bene sociale, ai valori socialmente riconosciuti non è in salute, e va curato, gestito, trattato. Trattamento sanitario obbligatorio, questione di salvezza, non di salute: occorre che tutti siano salvi, la salute diventa una convezione sociale e la cura un obbligo sociale. Lo stato ha bisogno della salute di tutti, la favola di Menenio Agrippa è la favola della salute pubblica, cioè della pena di tutti per amore dello stato, dello stato di pena. In assenza di arte e cultura, del commercio e dell’impresa, questa la salute: tutti devono stare in pena, occuparsi, preoccuparsi, curarsi, studiarsi, conoscersi, insomma occuparsi di sé come modo supremo di occuparsi dell’Altro.
L’occuparsi dovrebbe prendere il posto del fare, il conoscersi varrebbe a sostituire la ricerca, il misurarsi e il risparmiarsi servirebbero a canonizzare l’impresa. “Come stai?” risulta allora una domanda sul cerimoniale sociale: “Come stai rispettando il tuo stato di pena?”.
Lo stato di salute come stato di pena è uno stato d’inerzia, che sia di quiete o di moto. Ogni cosa, in particolare il tempo, è sottoposta a misurazione e a risparmio, e anche all’idea di ritorno, ovvero all’idea di circolarità o di quadratura. La salute allora è quando tutto circola bene o tutto quadra, ovvero c’è ritorno? La salute è quando il tempo è abolito, per esempio quando si è in vacanza o a riposo o in pensione? Fino a quando l’audacia e il rischio, la ricerca e il fare, il racconto e la scrittura verranno considerati ininfluenti, se non dannosi, per la salute? Lo stato di salute non è lo stato comatoso, lo stato d’inerzia inscenato nella necropoli, nella città senza tempo e senza impresa: lo stato di salute è lo stato del viaggio nel suo approdo al valore, al capitale.
Come considerare lo stress qualcosa di patogeno, come auspicare la distensione se proprio la tensione intellettuale (cui Sigmund Freud alludeva con il termine “pulsione”) indica la direzione di questo viaggio fino all’approdo? Nel viaggio che procede dall’apertura, non dall’unificazione, le cose entrano nella combinazione, non nella condivisione.
Cercando a ogni costo la distensione, il politicamente corretto mira alla condivisione e, procedendo in modo sommario, teme la divisione, dunque è fuori tempo e senza tempo (tempo, dal greco témno, taglio, divido), precludendosi l’avvenire e il divenire. Questa la vera patologia: la fine del tempo, con cui la malattia si fa corruzione da purificare e al posto della salute non resta che l’idea di salvezza. Come nota Carlo Zucchi, il politicamente corretto non intende l’occorrenza e il contingente in cui ciascuno vive perché nega il tempo delle cose puntando al tèlos, pensando che l’approdo sia il fine da raggiungere, dunque che la salute sia la propria realizzazione, la propria completezza. Nulla di più ideale: facendo, ciascuno si imbatte nel pleonasmo, nel superfluo. Il pleonasmo esclude il ritorno, per cui nulla si realizza e si completa, e la partita della salute non si chiude e non finisce.
La partita, la partizione, la divisione, il taglio, il tempo. Il tempo, la tabula dove si scrivono le cose che si fanno. I dispositivi della partita sono dispositivi temporali: la battaglia e la lotta. Nessuna lotta contro il tempo; la lotta attiene al tempo che dispensa l’evento. Lotta per la salute, battaglia per la salute: la salute non è un diritto né una finalità, esige il viaggio di ciascuno, con il progetto e il programma di vita, con i dispositivi di lotta e di battaglia.
Ciascuno, anziché ognuno, sta alla partita e al gioco. Al gioco e all’invenzione, all’arte e alla cultura. Stare, stato: ciascuno come statuto intellettuale nel dispositivo di parola, anziché come categoria, anziché come soggetto.
La partita della salute è la partita di chi accetta la vita, la sua cifra e non si arrende.
È la partita di chi non ha nulla da immolare, all’ombra dell’idea materna, sull’altare della convenzione sociale, per cui la stessa malattia non è una degradazione da cui riscattarsi. È la partita della parola, in cui l’itinerario è senza ritorno e va in direzione della qualità. La direzione della qualità è la tensione intellettuale, l’istanza della qualità è la salute.