I GIOVANI, LE TECNOLOGIE DIGITALI E LE FILIERE INTEGRATE

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presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), e della Piccola Industria di Confindustria Emilia Area Centro, territoriale di cui è vice presidente

Lei è vice presidente di Confindustria Emilia Area Centro e presidente della Piccola Industria all’interno della stessa organizzazione confindustriale, che accoglie – nelle tre province di Bologna, Ferrara e Modena – un polo di oltre 2700 piccole imprese in grande sviluppo, con una densità geografica tra le più rilevanti d’Europa. Quali sono le difficoltà che le piccole imprese devono affrontare nei prossimi mesi e quali le proposte per il loro avvenire? Partiamo da un dato importante: le piccole e medie imprese costituiscono il 98 per cento del tessuto economico italiano. Gli iscritti a Confindustria Emilia sono 3200, di cui 2700 piccole imprese con un fatturato annuo inferiore ai dieci milioni di euro. Se consideriamo poi la miriade di microimprese iscritte alle altre associazioni di categoria, capiamo quanti e quali attori rivestano un ruolo da protagonista nella produzione di ricchezza della nostra nazione. Perché non ce ne rendiamo conto e continuiamo a pensare e ad agire come se l’economia si reggesse soltanto sulle grandi aziende? Perché non inventiamo una politica industriale che parta dalle dimensioni delle nostre imprese, che è una particolarità del nostro paese, un valore inestimabile, il valore della differenza e della varietà del nostro patrimonio d’ingegno e di capitale intellettuale, distribuito su tutto il territorio, accanto alle bellezze delle città, dei paesaggi e dei beni culturali e artistici, che c’invidiano in tutto il mondo? Le difficoltà che un’azienda deve affrontare sono tante, ma quella principale è la burocrazia, che nel nostro paese è devastante, soprattutto per la piccola impresa. La grande riesce in qualche modo a superare i blocchi, a ottenere i permessi per aprire uno stabilimento nel minor tempo possibile, a convincere la pubblica amministrazione a costruire una circonvallazione e una scuola ad hoc e, infine, a essere celebrata dalla comunità. Questo non vale per i milioni di piccole e medie imprese, che sono in prima linea ed escono provate dall’emergenza provocata dal coronavirus e che dovranno risollevarsi in fretta, se non vogliono vanificare tutti gli sforzi compiuti dalla precedente crisi del 2009.
L’Italia che lavora, che inventa, che produce non soltanto profitto, ma anche gettito fiscale e welfare per la comunità, non può più permettersi di aspettare il deus ex machina che promette di risolvere i problemi una volta per tutte. L’Italia degli imprenditori e degli artigiani eredi delle botteghe del rinascimento deve divenire sempre più il motore di una trasformazione culturale che accolga le nostre tradizioni, le arti e i mestieri che ci sono stati tramandati dalle generazioni precedenti, e li rilanci per costruire l’avvenire della nazione, grazie alle nuove tecnologie, ai giovani – che devono integrare i loro studi tecnici e scientifici con l’esperienza sul campo e il senso di responsabilità – e all’organizzazione di filiere integrate.
In che modo si possono attuare i tre assi di questa rivoluzione? Innanzitutto servono piani come quello 4.0 di Calenda, che ha innescato una trasformazione digitale che sta dando grandi risultati, agevolando il cambiamento tecnologico delle nostre aziende: non bisogna incentivare la costruzione di nuovi capannoni, ma l’introduzione di tecnologie che consentono di mettere in comunicazione da remoto non soltanto i vari reparti fra loro, ma anche le aziende della stessa filiera, in modo che ciascun imprenditore, ciascun responsabile della produzione o responsabile commerciale possa avere accesso ai dati e all’andamento del lavoro in tempo reale e intervenire all’occorrenza, in qualsiasi parte del pianeta si trovi.
Il maglificio Della Rovere – che porta l’eccellenza made in Italy nelle più prestigiose boutique del pianeta – è un esempio di questa organizzazione… Stiamo andando sempre più verso una personalizzazione spinta del prodotto, per cui potremmo arrivare addirittura a integrare nella rete di produzione anche lo showroom che, per esempio, riceve una richiesta particolare da un cliente finale e la trasmette immediatamente al nostro responsabile della programmazione, il quale interviene per modificare il capo alla fonte.
In vent’anni, le condizioni e i luoghi di lavoro si sono ribaltati completamente.
Oggi non c’è più bisogno di costruire agglomerati intorno alle grandi città: qualsiasi borgo della provincia – come Longastrino, sede del nostro quartier generale –, usufruisce di servizi di trasporto veloci e vie di comunicazione telematica super efficienti. Con il vantaggio di godersi la qualità della vita tipica di una zona quasi priva di traffico, vicina al mare, da cui si possono raggiungere, in due o tre ore, le Dolomiti, Milano, Firenze o il Monte Conero.
Ecco perché da voi lavorano tanti giovani… I giovani devono divenire protagonisti della trasformazione culturale del nostro paese. Quelli che lavorano oggi nella nostra azienda hanno impiegato cinque anni per imparare il mestiere e adesso incominciano a dare un contributo importante con il loro talento. Un perito meccanico, tre periti elettronici e un diplomato al liceo artistico costituiscono un team affiatato, in grado di gestire tutte le macchine che lavorano in collegamento digitale nei reparti produttivi.
Ma per raggiungere questo grado di professionalità hanno frequentato i laboratori artigiani specializzati e si sono cimentati con i materiali pregiati con cui realizziamo i nostri capi. Per programmare la produzione, occorre sapere, per esempio, la differenza tra la resa di un filo di cotone e quella di un filo di seta quando va nella macchina di uno stesso calibro, e questo richiede un’esperienza sul campo che soltanto la pratica e l’insegnamento dei maestri della tradizione magliaia possono dare. Fra le caratteristiche essenziali dei giovani considero non soltanto la specializzazione tecnica, ma anche l’umiltà dell’ascolto, il loro approccio alla vita, la curiosità intellettuale e la capacità di lavorare e giocare con altri in modo responsabile.
Sono doti che dovrebbero far parte dell’educazione di ciascun cittadino. Gli italiani potrebbero vincere molto di più sui mercati esteri, se imparassero di nuovo a giocare e a entusiasmarsi per tutte le cose belle che abbiamo. Gli stranieri amano dell’Italia la dolce vita, perché identifica non tanto un momento in cui italiani stavano bene, quanto uno stile di vita in cui si divertivano. Forse ci prendiamo troppo sul serio o prendiamo alla lettera i modelli tedeschi e anglosassoni.
Che cosa intende? I modelli bisogna studiarli e smontarli.
Dopo la laurea in ingegneria elettronica, negli anni ottanta ho studiato vari modelli di organizzazione del lavoro: giapponese, svedese, tedesco.
Poi mi sono reso conto che noi italiani siamo particolari. L’organizzazione del lavoro è legata alla cultura di un popolo: se dici a un gruppo di tedeschi d’incontrarsi in un determinato posto a una certa ora e con un certo mezzo, ci arriveranno tutti alla stessa ora e con lo stesso mezzo. Gli italiani arriveranno in dieci modi differenti, percorrendo le strade più impensate, facendo tappa dalla zia o dall’amico che abita lungo il percorso e prendendo i mezzi più disparati. È la nostra natura o la nostra cultura? Chissà. Se però proviamo a organizzare eccessivamente gli italiani, otteniamo l’effetto contrario. Allora, dobbiamo organizzare gli italiani in maniera disorganizzata. L’esempio dell’organizzazione disorganizzata più emblematico è la nostra piazza.
La piazza è organizzatissima, perché è quadrata, di solito c’è la chiesa da una parte e il municipio dall’altra e tutt’intorno ci sono i negozi. Dentro il negozio ciascuno fa ciò che ritiene giusto, perché ciascuno si considera un genio. La stessa cosa accade in una fiera, perché la fiera è la trasposizione della piazza. Infatti, le nostre fiere sono spettacolari: il Vinitaly a Verona, il Pitti Immagine a Firenze, il Salone del Mobile a Milano sono il risultato dell’ingegno dei singoli espositori ai quali è lasciata la massima indipendenza, con l’unico vincolo di rimanere all’interno dei metri quadrati affittati e di scrivere il proprio nome e numero dello stand nell’insegna uguale per tutti. Allora, siccome la differenza e la varietà sono la nostra eccezionalità, la fiera, cioè l’organizzazione disorganizzata, diventa l’unico modo per dare un’economia di scala a un disordine, proprio come la piazza. Questo è il modo di organizzare gli italiani. Se invece a un italiano si danno istruzioni rigide per raggiungere un risultato, s’inciampa e non riesce ad arrivarci.
Pensare che le nostre piccole imprese sono state esortate per decenni a “fondersi”, a fare “massa critica”, a mettersi in rete… Non funziona nulla di tutto ciò che vorrebbe far seguire un protocollo, standardizzare ciò che non potrà mai essere standardizzato. E qui veniamo al terzo asse della trasformazione cui accennavo prima: la filiera integrata.
Negli anni ottanta si diceva che “piccolo è bello”, perché la nave piccola può cambiare rotta molto velocemente. Con l’avvento della globalizzazione però, ci si è accorti che una nave non può rimanere piccola e fare la corazzata: se vuole andare in giro per il mondo, dev’essere parte di una flotta. Oggi, far parte di una flotta vuol dire far parte di una filiera organizzata, che non comporta essere omologati o assorbiti all’interno di un marchio più grande, che ucciderebbe la particolarità di ciascuna impresa. Prendiamo l’esempio della nostra azienda: gli artigiani che lavorano con noi sono micro imprese che hanno ereditato l’arte della maglieria tramandata da generazioni. Negli anni settanta e ottanta, vigeva la logica predatoria secondo cui il grande mangiava il piccolo: l’Italia era piena di terzisti che lavoravano nel sottoscala di casa in balia dei produttori, che potevano lasciarli al loro destino da un giorno all’altro. Oggi noi dobbiamo valorizzare questo patrimonio del paese e fare in modo che non sprechino il loro tempo in attività secondarie e che diano la massima disponibilità nella produzione di ciò che hanno imparato in anni di lavoro. Per questo, stipuliamo accordi di filiera in cui forniamo loro sempre tecnologia all’avanguardia e la garanzia di continuità per un minimo di due anni, nel senso che non possiamo interrompere il rapporto di lavoro prima e, se lo facciamo, li paghiamo lo stesso.
È un caso più unico che raro? No, è una nuova logica che è intervenuta negli ultimi anni ed è stata alimentata anche dall’introduzione delle nuove tecnologie: avere la possibilità di monitorare a distanza le macchine che lavorano nei laboratori artigianali consente di considerare l’artigiano come parte della nostra azienda allargata. Così come investire sull’istruzione dei suoi figli, fare in modo che coltivino l’amore per il lavoro del genitore vuol dire assicurarsi una continuità della filiera nel tempo.