PAOLO MOSCATTI: LA CIFRA DI UN INCONTRO MAI SCONTATO

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psicanalista, brainworker, direttore dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Il viaggio straordinario di TEC Eurolab compie trent’anni e siamo onorati di averne seguito le vicende per diciotto, augurandoci di avere dato quel contributo intellettuale che davano gli artisti nelle corti rinascimentali.
La collaborazione con il nostro gruppo culturale imprenditoriale (Associazione Progetto Emilia Romagna), che pubblica la rivista “La città del secondo rinascimento”, è incominciata nel 2003. Siamo molto grati a chi ci ha dato l’occasione per incontrarci nell’ottobre del 2002: Giulia Luppi, direttrice del Museo della Bilancia di Campogalliano, ideatrice della rassegna I giorni della bilancia, che riceveva la nostra rivista e m’interpellò per propormi di tenere una conferenza nell’ambito della rassegna, sul tema La leggerezza della parola nella direzione dell’impresa.
Accettai con entusiasmo e rilanciai, suggerendo di coinvolgere anche Sergio Dalla Val per un intervento e offrendo alla direttrice l’opportunità di pubblicare un articolo sulla rivista.
In quel mite pomeriggio di ottobre gli imprenditori in sala erano tanti, ma uno in particolare era lì per un’apertura che non cercava di chiudere e per un interesse al pubblico, anziché al circolo domestico dove vengano confermati un senso, un sapere e una verità precostituiti.
Era un imprenditore che veniva da lontano e andava lontano: Paolo Moscatti.
La sua curiosità intellettuale e la sua inquietudine, proprio in quel periodo, lo portavano a sollecitare gli incontri con economisti, filosofi, scrittori e autori perché dessero testimonianza del loro itinerario di ricerca. Coglieva “opportunità al volo”, come racconta: “L’economista italo-americano Dominick Salvatore sarebbe arrivato a Modena per una conferenza istituzionale? Lo invitavo a tenerne una anche in TEC Eurolab, convocando altri imprenditori, ma anche e soprattutto i collaboratori, perché ascoltassero qualcosa di differente, anziché concentrarsi sempre e soltanto sulla lente del microscopio”.
Fu la stessa curiosità intellettuale che quel pomeriggio di ottobre, durante il dibattito, spinse Paolo Moscatti ad alzare la mano per porre una domanda: “Come far sì che il cervello dell’impresa non rimanga prerogativa dell’imprenditore o del manager, ma coinvolga ciascun collaboratore?”.
Una domanda che non chiedeva una risposta o una soluzione, ma un appuntamento, per instaurare un dispositivo di parola, in cui non importa chi siamo, ma da dove veniamo e dove andiamo. Tanti appuntamenti sono seguiti in questi diciotto anni. In queste occasioni l’incontro non è mai stato dato per scontato e il disagio non ha mai lasciato il posto all’agio, all’ideale della corrispondenza, della reciprocità, dell’intesa o della presunta comunicazione diretta, né è stata cercata la via facile o la padronanza sul pensiero, sulla ricerca e sull’impresa.
Il disagio intellettuale non cerca rimedio, ma introduce le cose nella parola. C’è chi tenta di convertire il disagio in ansia o in depressione, da sedare con una sostanza prescritta o proibita. Giorgio Antonucci affermava che, se ai tempi di Dante ci fosse stato lo psichiatra Cassano, non avremmo avuto la Divina Commedia, perché, ai primi versi: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura”, egli avrebbe prescritto il Prozac (lo psicofarmaco più somministrato contro la depressione, il cosiddetto “male oscuro”) e Dante si sarebbe fermato lì.
Il disagio non è il malessere, come vorrebbe Aristotele, che, nell’Etica Nicomachea, ritiene fondamentale “volere vivere bene”. Indagare, discutere, lasciando la questione aperta, alimenta l’incontro, non il malessere.
Non c’è un pensiero che produca malessere e, vivendo, ciascuna cosa non è né buona né cattiva. Bene-male, positivo-negativo sono ossimoro e stanno alle spalle del nostro viaggio.
Posti dinanzi, impediscono il viaggio: “volere il bene” implica l’economia del male, quindi il principio di elezione e di selezione per stabilire che cosa sia bene e che cosa sia male. Da qui il principio di non contraddizione e del terzo escluso. Quale incontro, quale scambio, quale crescita, quale profitto, quale ricerca, quale impresa e quale industria con questi principi che si mettono al comando del pensiero e della vita, privandoli dell’arte e dell’invenzione? Alcuni libri di antropologia e di sociologia – in auge in questi mesi di pandemia della paura – esaltano il modello di convivenza animale perché, a differenza di quello umano, non praticherebbe il conflitto fra simili: gli animali della stessa specie, secondo questo luogo comune, vivrebbero uniti e in armonia fra loro, alleandosi, semmai, per contrastare la potenza dei predatori. E quante sono le dottrine e le ideologie che gravano sull’impresa, rappresentandola come un coacervo di istinti animali che non vedono l’ora di scatenarsi sia all’interno, fra colleghi, sia all’esterno, contro i concorrenti? Un’impresa senza intelletto e senza parola, in cui l’incontro è inteso come armonia sociale, mentre il resto sarebbe da evitare per scongiurare il pericolo di “divisioni” fra soci, collaboratori, clienti e fornitori. Ma l’incontro procede dall’apertura, non dall’unità, anzi, il principio di unità esclude l’incontro, che interviene parlando e ascoltando, senza la paura di ferire o di essere feriti. La ferita, come la scissura e la divisione, è temporale, indica il tempo come taglio (temno in greco vuol dire taglio), come dif-ferire, cui segue il divenire. Chi crede che la parola ferisca – ovvero divida, corrompa l’unità ideale – è legato mani e piedi all’idea che ha di sé, dell’Altro e del tempo. Parlando, cercando, facendo, vivendo, nulla è mai fermo e nulla ha da dimostrare la propria presunta unità ideale, il proprio presunto valore.
In un’impresa come TEC Eurolab al valore si giunge, e ciascuno ha la chance di contribuire alla cifra, se non cerca conferme e riconoscimenti, ma dà prova di realtà, di verità e di riso.
Così incomincia e prosegue la festa dei primi trent’anni di TEC Eurolab, come festa della parola, per ciascuno.