LA MACCHINA COME INVENZIONE, LA TECNICA COME ARTE

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Nel 1530, i veneziani Paganino e Alessandro Paganini, padre e figlio, hanno una brillante idea. Sono tipografi, è stata inventata da poco la macchina per stampare e considerando che una moltitudine immensa di islamici è devota al Corano, trasmesso oralmente, pensano di stamparlo. La tiratura è altissima, ma non c’è nessuna vendita: nel 1538 tutte le copie vengono messe al rogo e ai Paganini viene tagliata la mano destra. Come scrive Carlo Panella nel libro Fuoco al Corano in onore di Allah, già il califfo ottomano Bayezit II, nel 1483, aveva proibito la stampa di qualsiasi testo in arabo e in turco e tale divieto fu replicato da Selim I, il suo successore, nel 1515, con lo scopo di evitare la diffusione, attraverso mezzi di stampa, della libera lettura. La proibizione di stampare libri, non solo il Corano, fu abolita nel 1727: con 260 anni di ritardo rispetto a Gutenberg, venne avviata la prima tipografia per stampare libri in arabo. Per la stampa meccanica del Corano si dovette aspettare fino al 1923: la lingua di Dio non si poteva affidare al torchio. Dal 1727 al 1839, nell’intero impero ottomano, non sono stati stampati più di 439 libri.
Con quali effetti per la cultura, ma anche per la scienza, la tecnica e l’impresa nei paesi islamici? Secondo aneddoto: nel 1798, nella campagna in Egitto, Napoleone porta con sé antropologi e professori, meccanici e ingegneri. Per ingraziarsi gli egiziani, scrive un proclama in cui afferma che lui è islamico, cristiano ed ebreo. Per tutta risposta, Al Jabarti, filosofo e membro del consiglio imperiale del Cairo, scrive un testo in cui lo condanna, affermando che non si poteva paragonare l’islam alle altre eresie. Ma, secondo il libro di Anthony Padgen, Mondi in guerra, Al Jabarti dovette ammettere che fu molto impressionato da una macchina straordinaria, portata dalle truppe francesi, che vedeva per la prima volta: la carriola! Questi aneddoti costituiscono due esempi dell’intolleranza e dell’ignoranza islamiche nei confronti della macchina e della tecnica. Eppure, i termini macchina e tecnica precedono di molto l’islamismo, vengono dal greco antico mechané e téchne. Omero nell’Iliade parla degli automi costruiti da Efesto.
Dedalo, costruttore e ingegnere, edifica il Labirinto di Cnosso a Creta, plasma sculture con occhi aperti e arti mobili e inventa per sé e per il figlio le ali di cera e di lino. Erone di Alessandria fu soprannominato mechanikòs per il suo talento d’inventore di congegni e strumenti. Mechané era il congegno, era l’attrezzatura teatrale (Euripide la usava per far calare la divinità che faceva concludere la tragedia, da cui la formulazione latina deus ex machina), ma anche la congettura e l’invenzione; era la macchina da guerra, di cui Archimede di Siracusa costruì molti modelli, ma anche il mezzo per ottenere uno scopo, dunque l’espediente e l’astuzia. La téchne era quel sapere che si distingueva dalla conoscenza dottrinale (epistème), era il sapere della pratica, l’arte come esperienza, destrezza, manualità.
Cos’è avvenuto poi in Oriente, tanto da dare adito al tabù della macchina e della tecnica? Nell’oriente bizantino, da Alessandria a Costantinopoli, l’influenza greca è divenuta ripetizione dei classici, erudizione, anche disputa teologica; nei territori occupati dall’islam, dall’Arabia alla Persia fino alla Spagna, si sono sviluppate la matematica, l’astronomia, la medicina, ma non le tecnologie, e soprattutto grazie ad autori non islamici, come documenta Rodney Stark nel saggio La vittoria dell’Occidente. Mancata la nozione di esperienza introdotta dal rinascimento, la ricerca e la scienza non sono giunte alla macchina e alla tecnica, dunque all’impresa e all’industria.
Non è possibile riprendere l’istanza intellettuale sorta in Grecia rispetto alla macchina come invenzione e alla tecnica come arte senza intendere la lezione del rinascimento italiano, ignorato, se non combattuto, dall’islamismo. Jack Goody, per sostenere che esiste anche un rinascimento islamico, nel suo libro Rinascimenti. Uno o molti?, riduce il rinascimento alla ripresa dei classici.
Ma il rinascimento non è la riscoperta del passato, non è l’umanesimo.
Leonardo, proprio perché inventore e artista, non era un umanista: si è attenuto all’esperienza, anziché al principio d’autorità che nega l’invenzione e l’arte, definiva gli umanisti “non inventori, ma trombetti e recitatori delle altrui opere”. Nel rinascimento la macchina diviene cultura come invenzione e la tecnica diviene arte: con Benvenuto Cellini, straordinario orefice che si cimenta nell’arte della scultura fino a produrre, in modo ingegnoso, lo straordinario Perseo, il rinascimento giunge all’artificio, alla poesia, all’industria.
Non a caso Cellini è anche scrittore di un pregevole Trattato della scultura e della Vita, in cui la biografia assurge a analisi e narrazione dell’epoca.
La questione posta dal rinascimento si enuncia con Niccolò Machiavelli: “L’industria val più che la natura” (Dell’arte della guerra). Nessun naturalismo, nessun innatismo, importa come gli elementi, con la macchina e la tecnica, entrano nella struttura, in latino in struere, da cui endo struere, dunque industria. E, ancora, costruzione, strumento e istruzione. Il rinascimento esige l’industria. L’industria è il registro pragmatico in cui si strutturano la macchina e la tecnica, l’invenzione e l’arte. “La nostra industria è arte industriale”, scrive in questo numero l’imprenditore Diego Zoboli. L’industria non è un apparato, s’instaura quando le cose si combinano in una struttura funzionale e operativa. Si combinano nella parola, dicendo, facendo, scrivendo. Qui s’intersecano la mechané come invenzione e la téchne come articolazione: ne conseguono una formazione e un insegnamento che specificano l’impresa come impresa narrativa.
Sebbene oggi si parli di era post-industriale, l’industria come struttura pragmatica narrativa, struttura che si precisa ricercando e facendo, è solo al debutto.
Anziché lamentare il disfacimento delle famiglie, la crisi delle imprese, l’assenza di valori dei giovani, occorre indagare la struttura e i dispositivi di parola di ciascuna famiglia, di ciascuna impresa, di ciascuna organizzazione pubblica e privata. Questa struttura può essere indagata e intesa nelle sue arti e nelle sue invenzioni da quel servizio intellettuale che chiamiamo brainworking, non può venire significata in patologie da curare da psicomacchine e psicotecniche.
Nonostante possano essere immaginate o credute strumenti di liberazione dalla fatica (le macchine) o dalle malattie (le tecniche), la macchina e la tecnica non consentono l’economia di quel che è creduto negativo, non servono a risparmiare o a misurare il tempo, il fare, l’esperienza presunti segni del male dell’Altro.
Il brainworking, la scienza della parola che esplora e instaura i dispositivi dell’impresa, indica che le proprietà dell’industria come struttura pragmatica sono tre: l’impresa dell’industria, la poesia dell’industria e la politica dell’industria.
Queste proprietà sono temporali, pragmatiche: il tempo dell’impresa, il tempo del fare, della poesia e il tempo della politica. E l’industria comporta l’impresa del tempo, la poesia del tempo, la politica del tempo. L’imprenditore, che procede secondo l’occorrenza, è dunque emulo del tempo, con le sue invenzioni e le sue arti, e si attiene a queste tre proprietà strutturali, non a un presunto spirito del tempo, tanto meno di un fantomatico tempo del Covid.
L’instaurazione del tempo esclude che l’industria possa spiritualizzarsi, che possa esserci lo spirito dell’industria, dunque la mistica dell’industria, che porterebbero all’industria spirituale, ovvero all’industria sociale. Su questa mistica poggia l’idea che l’impresa abbia una sua anima, un suo spirito, nuovo terreno di conquista per ogni curatore d’anime, per ogni consulente psicopompo.
L’impresa è proprietà dell’industria, che per questa proprietà si avvale del calcolo e dell’ingegneria. Il calcolo non è la macchina o la tecnica per la divinazione, non serve per evitare l’errore: già Sigmund Freud ha avvertito che quel che importa nel calcolo è l’errore, che considerava foriero di verità. Quale invenzione non è nata dall’errore? L’impresa fa leva sul calcolo, con la sua invenzione e il suo gioco. Per questo le religioni fondamentaliste non consentono la macchina e la tecnica, dunque osteggiano l’invenzione e l’arte: l’impresa dell’industria poggia sull’errore, mentre il fondamentalismo religioso non ammette l’errore. L’islam non ha consentito la stampa, soprattutto del Corano, perché occorreva esorcizzare il rischio di errore, che la stampa e l’interpretazione non evitano, per cui potrebbero favorire strane fantasmagorie, curiose elucubrazioni, inammissibili eresie.
Anche la stessa scienza esige l’errore di calcolo, si avvia con la svista, addirittura con la cantonata, come prova nel suo libro Cantonate il fisico Mario Livio. Con il pretesto del Covid, il circo dei media e dei social ha svilito la scienza, perché ha chiesto agli scienziati certezze e verità che essi non possono dare, nonostante le loro parate mediatiche: lo scienziato non è un visionario, procede di svista in svista, di cantonata in cantonata, da qui l’arte e l’invenzione.
Questo è importante anche per l’azienda, che negherebbe la sua logica e la sua struttura qualora, per evitare lo sbaglio di conto, la svista, l’errore di calcolo, si affidasse alla statistica, alla divinazione dell’avvenire. Come prevenire l’errore? Seguendo il trend dei dati, interpretati dal miglior indovino. Ma in questo modo l’industria si sottopone alla mantica, cerca il prevedibile, segue il probabile, piuttosto che attenersi al gusto dell’improbabile, che è il gusto della riuscita. Il calcolo non è calcolabile, risalta dall’azzardo ed è dispositivo temporale. L’incontro non vale a evitare l’errore: “L’errore di calcolo è la punta dell’incontro nel silenzio dell’intervallo”, scrive Armando Verdiglione nel suo libro di prossima uscita Una vita di cifrematica.
Altro aspetto dell’impresa come proprietà dell’industria è l’ingegneria: l’ingegneria specifica il calcolo. ll brainworking è questione di dispositivo del calcolo, dunque di dispositivo dell’ingegneria pragmatica. L’ingegno si nutre dell’industria, dunque niente ingegno senza la macchina e la tecnica, senza l’invenzione e l’arte. “Meraviglie dell’arte d’ingegno machinatorica!”, scrive Leonardo (Manoscritto I dell’Institut de France, 57 v). L’ingegno si esercita entro il fare, con la combinazione dell’invenzione e dell’arte, della differenza e della varietà, e trae all’astuzia: “L’astuzia (…) appartiene all’ingegno”, scrive Giacomo Leopardi nei Pensieri, anche se “è usata moltissime volte per supplire alla scarsità di esso ingegno”. Con l’ingegno, l’astuzia risulta pragmatica, propria delle cose che si fanno secondo l’occorrenza, non è l’astuzia della ragione, che persegue, secondo Friedrich Hegel, i propri fini. In “scarsità di esso d’ingegno”.
La macchina e la tecnica trovano la loro utilità nel télos, nel consentire la finalizzazione dell’azione? L’arte è forse variabile, dunque destinata a finire, a vantaggio del trionfo hegeliano dello spirito? L’invenzione e l’arte non si sottopongono alla causa finale, perché l’ingegneria sfata la religione della morte, l’idea di fine del tempo. L’ingegneria s’instaura secondo la contingenza, per cui senza ingegneria l’impresa sarebbe votata all’automaticismo magico e ipnotico, sarebbe determinata dagli algoritmi, si atterrebbe alle mitologie ambientaliste e transumaniste.
Ingegneria del tempo, ingegneria strutturale, ingegneria industriale, ingegneria gestionale, ingegneria civile.
Il genio non è nazionale, non è lo spirito della nazione, lo spirito del popolo. Non c’è lo spirito del tempo, che porterebbe allo spirito della poesia, allo spirito dell’impresa, allo spirito della politica.
Lo spirito del tempo sarebbe lo spirito senza il tempo, per questo trarrebbe con sé l’idea di ritorno, di ghénos ideale, d’illuminazione. Scrive Leonardo da Vinci: “Chi fugge le ombre fugge dalla gloria dell’arte appresso i nobili ingegni, e l’acquista appresso l’ignorante volgo il quale nulla più desidera che bellezza di colori” (Codice urbinate, 406). E altrove annota: “L’Italia si affinisce di boni ingegni”. L’ingegneria, la generosità. L’ingegno trae alla finezza, non ai fini, giunge alla luce dell’intendimento, non all’illuminazione. L’idea senza ritorno e senza ghénos opera alla riuscita, per cui Machiavelli può offrire la lezione dell’impresa industriale: “Ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa” (Ghiribizzi).