LA MACCHINA E LA TECNICA. L’INVENZIONE, L’ARTE, LA LIBERTÀ D’IMPRESA

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrematico, direttore dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Il forum La macchina e la tecnica. L’invenzione, l’arte, la libertà d’impresa (Modena, 10 settembre 2020), i cui interventi sono pubblicati in questo numero, ha esplorato un’accezione non comune di macchina (in greco mechané) come invenzione, come cultura, e di tecnica (in greco téchne) come arte. Accezione indagata in particolare da Sergio Dalla Val nel suo editoriale.
Nell’antica Grecia, macchina e tecnica si riferivano alle opere d’ingegno, ai manufatti e alle costruzioni che richiedevano l’intelligenza della mano: sono i due aspetti dell’industria. Ma di quale industria? Quella di cui parla Niccolò Machiavelli quando scrive: “Non déi pertanto sperare in alcuna cosa, fuora che nella tua industria”.
In ciascun istante della vita – anche in un momento in cui il circo mediatico è concentrato sulla pandemia – come fare, come riuscire, come approdare al piacere e divenire caso di cifra? Con industria, ovvero con l’invenzione e l’arte, con la macchina e la tecnica, che non sono i macchinari e le tecnologie, ma la struttura della parola, struttura materiale (“industria” viene dal latino endo struere), intoglibile dal racconto.
Raccontando, facendo e scrivendo, instaurando dispositivi di parola, non c’è più la separazione antirinascimentale fra arti liberali e arti meccaniche, che relegava la pittura, in quanto si avvale della mano, in secondo piano rispetto alla letteratura, in quanto potrebbe fare a meno della materia.
Come prova l’itinerario di Leonardo da Vinci – il quale affermava che con la stessa mano scriveva e dipingeva – questa separazione è contro la scienza che sorge proprio con il rinascimento.
Con Leonardo, la scienza non ha più alcun debito nei confronti dell’ontologia, dell’essere, che aveva dominato nel discorso occidentale, almeno a partire dalla filosofia di Platone e di Aristotele.
Con il rinascimento, anziché l’essere, importa il fare nella parola – le cose che si dicono si fanno e si scrivono –, importano le opere d’ingegno, i dispositivi delle botteghe, i viaggi, la ricerca e la scienza. L’arte e l’invenzione non sono più al servizio di un senso, di un sapere e di una verità precostituiti, ma contribuiscono al senso, al sapere e alla verità come effetti di un cammino e di un percorso particolari a ciascuno.
Così, Ludovico Ariosto incomincia il suo Orlando furioso cantando: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese”, Così, si producono i capolavori che distingueranno per sempre l’ingegno italiano nel pianeta. E, così, ereditando la scienza, l’arte e l’invenzione delle botteghe del rinascimento, gli imprenditori nel nostro paese non hanno bisogno di fare sistema, come propongono le ideologie di matrice anglosassone che gravano sulle piccole e medie imprese, ritenendole troppo piccole per competere sul mercato globale. Esse trascurano che la loro forza sta proprio nella particolarità, nella varietà e nella specificità.
Per valorizzare il nostro patrimonio industriale, quindi scientifico, culturale e artistico, occorre procedere per integrazione, dall’apertura, non ricorrere al sistema. Procedere dall’apertura, ancora una volta, vuol dire parlare e ascoltare, raccontare, perché nessuna azienda, nessuna squadra può giungere alla qualità del risultato di un processo senza la parola. Soltanto parlando, le cose si specificano e giungono a compimento. Ma parlare non è facile: la scienza della parola sta proprio nell’assenza di facilità, di facoltà, di padronanza sulla parola.
Dire, per esempio, che l’opera d’arte è “creazione” o che l’imprenditore dev’essere un “visionario” non va da sé. Il concetto di creazione, come quello di visione, è ideologico, riporta all’idea di mondo, di realtà ineffabile, fuori dalla parola, che se ne starebbe lì, come sostanza inerte o nascosta, in attesa di essere espressa o rivelata. E quanti sono coloro che amano definirsi “creativi” o “visionari”? La scienza che sorge con il rinascimento concerne le cose nel loro viaggio, un viaggio narrativo in cui importa come le cose si dicono, non una realtà, presente o futura, da osservare e da illuminare.
Chi attacca l’impresa, compresi alcuni esponenti dei sindacati, come nota Pietro Ichino nel suo intervento, si riferisce a un modello che ormai non esiste più, quello in cui il lavoro del proletario era lontanissimo dall’arte intesa come “libertà di espressione”, ma era al servizio del “desiderio artistico” del datore di lavoro. Siamo sicuri però che non esista più questa idea di “repressione della creatività”? Quanti sono i giovani che cercano un lavoro “creativo” e confondono l’arte con la creazione, pretendendo così di abolire la disciplina, la tecnica (la stessa arte in quanto tecnica, téchne), a vantaggio dell’ispirazione, che il daìmon, la divinità, dovrebbe infondere attraverso la visione dell’opera da realizzare? È impossibile dare un contributo alla civiltà senza l’analisi di questi luoghi comuni e di questi arcaismi, che esaltano la cosiddetta intelligenza emotiva come elemento indispensabile alla riuscita.
Le cose riescono perché entrano in un processo narrativo di qualificazione e di scrittura della memoria, non perché, all’improvviso, qualcuno ha un lampo di genio. L’idea opera alla riuscita, ma l’idea interviene parlando, narrando, facendo, non è, platonicamente, l’origine e la sede dell’essere.