PER IL RILANCIO E LO SVILUPPO DEL PAESE, ABBIAMO BISOGNO DI GOVERNANCE

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presidente del maglificio Della Rovere, Longastrino (FE), e della Piccola Industria di Confindustria Emilia Area Centro, vice presidente della stessa territoriale

Sono felice d’intervenire a questo forum (La macchina e la tecnica. L’invenzione, l’arte, la libertà d’impresa, Laboratorio aperto Modena, 10 settembre 2020), in un contesto insolito rispetto alla mia esperienza di incontri con gli associati di Piccola Industria Confindustria Emilia Area Centro, di cui sono presidente. E vorrei avviare questa riflessione con un tema che mi sta molto a cuore: come divenire imprenditori. Non c’è una scuola e non ci sono libri che possano insegnare questo mestiere, tuttavia, i giovani più intraprendenti possono frequentare migliaia di imprenditori all’opera nelle loro aziende, ascoltare e imparare un mestiere straordinario, che ha alla base una grande capacità d’innovare, di rischiare, di catturare bisogni e necessità e di trasformarli in prodotti e servizi che producono ricchezza per sé, per i propri dipendenti, per i propri collaboratori e per l’intera collettività.
L’imprenditore e l’impresa sono sempre stati il fulcro della trasformazione nella società, eppure, non si parla quasi mai del percorso culturale e della formazione indispensabili per svolgere un compito così importante.
Ora, però, è divenuto un argomento di estrema urgenza, considerando che siamo in un momento di grande passaggio, con un’accelerazione tecnologica che sta sconvolgendo le nostre vite e una frattura enorme tra la mia generazione e quella dei miei figli, i cosiddetti nativi digitali, per cui si pone un problema di trasmissione di valori e di competenze.
Prima d’iniziare con le proposte e le analisi critiche, però, vorrei riportare alcuni dati di natura economica: nel primo semestre del 2020 l’Italia ha perso il 17,3% del Pil rispetto al 2019, la Francia ne ha perso il 19%, la Spagna il 22,5%, il Regno Unito, in piena Brexit, ha perso il 21,7%.
Curiosamente, però, nonostante siamo stati i primi a essere colpiti dal Covid-19 e siamo stati fermi due mesi, abbiamo perso meno Pil degli altri. Questo è un primo dato. Se però confrontiamo i valori dell’Italia dal 2001 al 2020, cioè degli ultimi venti anni, scopriamo che, al di là della battuta di arresto causata dal Covid- 19, in realtà non abbiamo ancora recuperato il Pil del 2001, siamo arrivati al 90%, contro paesi che sono attorno al 100% e la Germania, che ha addirittura raggiunto il 117%.
Questo vuol dire che nell’emergenza siamo “fenomeni”, mentre abbiamo problemi strutturali enormi, che si protraggono nel tempo perché non incominciamo mai a fare il primo scalino.
Facciamo qualche esempio. L’autostrada Bologna-Padova è ancora a due corsie, proprio come negli anni sessanta, quando c’erano due milioni di veicoli circolanti in Italia, contro i trentasei milioni attuali, con la differenza che intanto Trieste è tornata a essere il centro dell’Europa, Lubiana la via maestra per l’Est del Continente e per di più una delle due corsie è occupata dai camion, mentre negli anni sessanta le merci viaggiavano sui treni di notte. Questo è un problema strutturale.
Un altro problema è la rete idrica: è vero che il clima è cambiato, ma non è questo l’unico motivo per cui l’Italia va sott’acqua un anno sì e uno no. Basti pensare che il sistema idrico italiano di bonifiche e canalizzazioni ha terminato la fase di grande sviluppo negli anni Cinquanta. Eppure, nel frattempo, quanti ettari di terreno sono stati cementificati, quanti fossi sono stati chiusi negli appezzamenti, che si sono sempre più ingranditi, senza costruire nuove dighe, argini e vasche di laminazione per contenere le acque? Abbiamo a disposizione trattori ed escavatori giganteschi, una tecnologia incredibile, ma la nostra progettazione a lungo termine dov’è? Non esiste nessun progetto condiviso. Si fa un gran parlare di concertazione e di condivisione, ma credo ci sia un problema enorme di governance, di capacità di decidere e di mantenere le decisioni nel tempo.
Sono questi gli ingredienti con cui è stata costruita Venezia. Passeggiando per le sue calli e ammirando il suo splendore, ci chiediamo: “Ma chi l’ha progettata? Un dittatore, uno che ha deciso tutto?”. No, Venezia è una repubblica di mille anni con una governance ben precisa, di persone elette che hanno costruito, con capacità e coerenza, una città bellissima, logisticamente perfetta, la città più ricca del pianeta, che potrà essere una miniera d’oro anche per gli anni a venire. Pertanto, il nostro problema di un mancato recupero del Pil è dovuto alla nostra incapacità da trenta, quarant’anni, di fare progetti a lungo termine, non solo di politica industriale, ma progetti di sviluppo per il paese.
Per non parlare dell’istruzione: siamo la seconda potenza manifatturiera in Europa, dopo la Germania, eppure, le nostre scuole professionali sono considerate di serie B e l’unica scuola ritenuta seria è il liceo. Allora, cambiamo nome agli istituti tecnici, chiamiamoli licei tecnici. La Francia sforna 540.000 ITS all’anno, la Germania 720.000 e l’Italia soltanto 14.000. E, intanto, chi ha formato la classe tecnica italiana? Gli artigiani.
I poveri, maltrattati, ignoranti artigiani che parlano in dialetto hanno insegnato a saldare, a lavorare un pezzo di legno, a costruire oggetti, componenti e manufatti senza cui la grande industria sarebbe destinata al declino. Non possiamo continuare a portarci dietro questo problema culturale per cui in Italia i cittadini non riescono a capire che il mestiere è una cosa nobile. C’è voluto il programma televisivo MasterChef per mandare i nostri figli all’istituto alberghiero, per cui adesso il cuoco è un maestro, mentre prima era un lavapiatti.
E lo stesso vale per la moda: bisogna consigliare ai giovani le scuole di modellismo, anziché affollare i corsi di stilismo. Non è possibile progredire facendo storia della moda, bisogna ricominciare a fare moda, cimentandosi con i mestieri artigianali che contribuiscono alle eccellenze del made in Italy. E, poi, integrare queste attività con le nuove tecnologie e trovare nuovi canali di marketing e distribuzione, come per esempio ha fatto l’erede dell’antica acetaia Giusti di Modena, che ha portato il fatturato da uno a dieci milioni, valorizzando al massimo la storia di un aceto balsamico con una storia secolare, oggi apprezzato dai più grandi chef di Tokyo, e non solo, che s’inchinano quando sentono pronunciarne il nome.
Noi abbiamo due problemi: da una parte, i vecchi artigiani che non sono disponibili a rivoluzionare la loro attività, non si fanno affiancare da giovani con idee vincenti per trarre profitto dalle nuove tecnologie e quindi non riusciranno a sopravvivere; e, dall’altra, quei giovani che credono di avere raggiunto chissà quali traguardi perché hanno studiato e ora la società deve offrire loro un lavoro su misura.
Questi giovani diventano persone frustrate che a trent’anni chiedono il reddito di cittadinanza. Peccato che non abbiano potuto usufruire di alcun orientamento né di servizi di politiche del lavoro attive, in grado d’informare sulle reali necessità e fabbisogni del mercato. Quando con altri imprenditori ho avviato le politiche di alternanza scuola-lavoro, non c’era ancora la legge, ma sapevamo che offrire un’opportunità d’introduzione pratica al lavoro agli studenti più bravi era la cosa migliore da fare per le nostre aziende. E ricordo che una professoressa di latino mi disse: “Ma lei vuole che tutti facciano gli ingegneri o i periti?”. “No”, le risposi, rovesciandole la domanda: “E lei ha paura che io dia le informazioni alle famiglie? Io voglio dare alle famiglie soltanto queste informazioni: quali sono le prospettive di occupazione e il reddito medio a tre anni, secondo i dati della Fondazione Agnelli o del Centro studi di Confindustria”.
Sto parlando di luoghi di grande incomunicazione, questo è il punto chiave: è un dialogo fra sordi, siamo tutti fenomeni, ma nell’insieme la macchina batte in testa. L’università va per conto suo, le imprese vanno per conto loro, e così non vinciamo: abbiamo diecimila associazioni di rappresentanza, una in contraddizione con l’altra, e mettere insieme tre imprenditori per fare una cosa è impossibile.
Noi siamo in un territorio (le province di Bologna, Ferrara e Modena) che ha 3.200 aziende iscritte a Confindustria, appartenenti a venti filiere produttive. Siamo l’area manifatturiera più produttiva d’Europa, insieme a una piccola zona della Germania, siamo tra le migliori e più ricche regioni al mondo. Le più grandi aree industriali europee, quella di Lione in Francia e di Brandeburgo in Germania, hanno al massimo cinque, sei filiere, noi ne abbiamo venti che si contaminano a vicenda, dal biomedicale alle macchine automatiche: è una fortuna incredibile e ci consente di fare cose complesse, non banalità.
Soprattutto in un momento in cui la quarta rivoluzione industriale è già entrata nelle aziende e sta trasformando le nostre vite, con gli oggetti che dialogano fra loro e riducono i confini fra luoghi di produzione, di distribuzione e di godimento di beni e servizi.
Faccio un breve excursus a questo proposito: quando, nelle fabbriche della prima rivoluzione industriale inglese, si è passati dalla motricità del lavoro prodotta dai mulini ad acqua alla macchina a vapore, il fabbricato era un parallelepipedo, perché la forza motrice partiva da un angolo del piano terra e si trasmetteva ai vari piani tramite un albero cui erano collegate cinghie e pulegge che servivano all’azionamento degli utensili utilizzati nelle varie fasi di lavorazione.
Quando è stato inventato il motore elettrico, via via, il layout della fabbrica è divenuto orizzontale, soprattutto perché gli ingegneri hanno pensato di dislocare tanti piccoli motori quanti erano gli utensili da azionare, anziché un unico grande motore al centro della fabbrica. Oggi, siamo arrivati al punto in cui la rivoluzione 4.0 sta sconvolgendo qualsiasi idea di luogo di produzione: potrebbe accadere presto, anzi, in alcuni settori come la moda sta già accadendo, che si produca nel luogo di vendita e si progetti a casa di un utente. La digitalizzazione estrema, la connessione porta a fare sì che le azioni che abbiamo dato per scontate negli ultimi trent’anni si svolgano in un modo completamente differente.
Siamo alle soglie di una svolta epocale, dobbiamo prenderne atto, ma per farlo occorre parlare, discutere, confrontarsi tra generazioni e con altri paesi. L’Italia può servire il mondo con le bellezze che vanta in ogni settore. Siamo un grande paese, possiamo fare cose straordinarie, ma per fare cose straordinarie bisogna discutere, decidere, dare fiducia e, soprattutto, fare governance. Se qualcuno non governa, non decide nel lungo termine, stiamo facendo soltanto chiacchiere e non produciamo nulla.