L’INDUSTRIA ITALIANA È ARTE INDUSTRIALE

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imprenditore, Officina Bertoni Dino Srl e Officina Meccanica Bartoli, Modena

A partire dalla sua esperienza d’imprenditore nel settore della meccanica di precisione al servizio dell’automotive, del racing, delle macchine agricole e delle macchine automatiche, può dirci in che modo l’invenzione e l’arte contribuiscono al valore dell’impresa? Il nostro è il paese delle eccellenze in quasi tutti i settori produttivi. Noi non abbiamo soltanto il più grande patrimonio artistico e culturale del pianeta, ma anche i più bravi stilisti, sarti e chef; inoltre, i nostri “cervelli” sono contesi dalle più importanti organizzazioni mondiali nella medicina e in ciascun ambito della ricerca scientifica. Abbiamo un patrimonio che è fonte d’ispirazione per ciascun cittadino, ma in particolare per ciascun imprenditore, che se ne avvale anche senza saperlo. In che modo? Se confrontiamo un prodotto italiano con qualsiasi altro fabbricato in altri paesi, il grado d’invenzione e di arte del nostro prodotto fa la differenza, ed è tangibile, è una questione di gusto e di stile, apprezzabile anche da non esperti.
Ciascun italiano intende in che modo l’invenzione e l’arte contribuiscono al valore dell’impresa, tranne la maggior parte dei politici e degli amministratori pubblici, che si ostinano a governare l’Italia prendendo a riferimento modelli lontanissimi dalla nostra realtà. Adottare questi modelli sarebbe come far tirare l’aratro a un cavallo da corsa e far correre un cavallo da tiro.
La nostra politica agricola, per esempio, non può fare riferimento ai paesi nordici, che hanno territori immensi, ricchi di foreste, noi non abbiamo lo spazio necessario per i latifondi né i nostri piccoli appezzamenti possono essere governati come se lo fossero.
Noi abbiamo biodiversità incredibili grazie a una miriade di microclimi, ma non possiamo puntare sulla quantità.
Per quanto riguarda l’industria, poi, sappiamo che il nostro paese non ha materie prime, quindi non possiamo fare riferimento alla Germania, noi non abbiamo una Ruhr, non abbiamo le miniere, possiamo soltanto pensare di riuscire a trasformare la materia prima importata avvalendoci della nostra arte. Tutto in Italia è arte, la nostra industria è arte industriale.
Noi viviamo in un paese di eccellenze, in ogni ambito, tranne che nell’amministrazione di tali eccellenze.
È un paradosso incredibile. E gli imprenditori nel nostro paese sono eroi, perché riescono a produrre cose straordinarie, nonostante una burocrazia soffocante. Non esiste nessun’altra figura che, come l’imprenditore, riesce a produrre così tanta ricchezza per tante famiglie in uno spazio così ristretto e ridotto. Il nostro paese, come dicevo, non ha latifondi, i nostri spazi sono piuttosto limitati, quindi non possiamo fare a meno dell’industria.
Allora, perché non riusciamo a valorizzare il nostro patrimonio artistico e culturale? Occorrerebbe investire in una nuova forma d’industria: noi dovremmo essere il faro culturale del pianeta, ogni nostra piazza dovrebbe accogliere quotidianamente un evento culturale di livello mondiale. Questo dovrebbe essere il nostro scopo.
Invece, non riusciamo a farlo, non perché siamo incapaci, ma perché siamo vessati da un’oligarchia, anche culturale, che è contro l’industria. Ma, se non vogliamo finire a gambe all’aria, dobbiamo tornare a investire sulla nostra industria e tornare a tutelare la nostra eccellenza industriale, tornare a fare politiche che permettano alla nostra industria di svilupparsi e di essere riconosciuta come il vero motore trainante dell’economia italiana.
L’industria deve tornare a essere il grande mecenate di cui l’Italia ha bisogno per dare respiro ai cittadini e alle possibilità di reinventarsi e di valorizzare il nostro patrimonio artistico, nonché di attuare tutti gli interventi di cui il nostro paese ha bisogno.
Nel suo intervento all’assemblea annuale di Confindustria, il premier Conte ha esordito prendendosi il merito del contenimento dei contagi grazie al lockdown, che invece gli imprenditori avrebbero voluto evitare, per continuare a produrre in assoluta sicurezza. In pratica, ha contrapposto, ancora una volta, l’economia alla salute, come se l’impresa fosse un luogo in cui prevale il mero interesse economico, mentre abbiamo avuto la prova che non ci sono luoghi più sicuri delle aziende… Questo ci dà la misura dell’arroganza di chi ci governa: anziché parlare degli interventi di cui ha bisogno l’industria per il rilancio dell’economia, il presidente del Consiglio si permette di fare la predica a casa di chi lo ospita, fingendo d’ignorare a chi si stava rivolgendo, ovvero a chi ha portato l’Italia a essere la quinta potenza industriale del mondo, gente consapevole, che non parla per slogan e si aspetta determinate scelte politiche per fare poi investimenti che coinvolgono migliaia di collaboratori con le loro famiglie, gente che potrebbe andare a produrre in qualsiasi altro paese, ma che continua a investire in Italia. Queste persone si aspettano un’assunzione di responsabilità politica, non di essere tirati per le orecchie.
Quali sono gli interventi più urgenti che il nostro governo dovrebbe mettere in campo in questo momento? Intanto bisogna puntare i piedi in Europa, perché senza di noi non c’è l’Europa. Poi, dato che abbiamo bisogno di soldi, non in prestito, per rilanciare l’economia, occorrerebbero un condono, una nuova politica del lavoro e una sburocratizzazione dello stato. Invece, quando sarebbe il momento di abbassare l’Iva per aumentare i consumi, si pensa di alzare le accise sul diesel. E tutti i proprietari di camion e di padroncini, che trasportano le merci, come riusciranno a proseguire? Queste non sono politiche lungimiranti, sono interventi senza alcuna direzione.
Intorno all’impresa, con i commerci e gli scambi, sono nate le città, che sono sempre state luogo d’incontro, di trasformazione culturale e artistica. Oggi, però, in seguito alla pandemia, stiamo constatando una fuga dalle città… La città è come un’agorà, è il luogo in cui le cose accadono, si trasformano e si preparano all’avvenire. La rivoluzione industriale ha portato tanta gente in città e per questo, da allora, si è innescata una trasformazione inarrestabile. Una società rurale non cambia velocemente, mantiene le sue tradizioni per un lasso temporale molto più lungo, perché manca lo scambio continuo fra realtà differenti e fra le persone che vivono in una città e quelle che provengono da un’altra. Pensare che le città si svuotino a vantaggio delle campagne o del telelavoro fa perdere le occasioni di scambio, d’incontro e di crescita.
Addirittura, in questo periodo, c’è chi dice che sia un bene il fatto che non ci sia tanta gente in giro per le città e che ognuno se ne stia a casa, senza i tempi morti degli spostamenti. Ma i tempi morti, soprattutto sui mezzi pubblici, hanno un grande valore: si può ascoltare musica, riposarsi, leggere, scrivere, pensare. Il pendolare, che ha la possibilità di leggere durante gli spostamenti quotidiani, quando è a casa, spesso e volentieri, guarda la televisione.
Non solo, non ha neanche l’opportunità d’incontrare altri che stanno vivendo in quel momento il suo stesso angolo di realtà. La città consente un continuo scambio, anche di sensazioni, che provoca movimento intellettuale in una persona, che invece si appiattisce se si isola o rimane nel suo piccolo gruppo familiare all’interno delle proprie mura domestiche. Ma la società non può permettersi di perdere le opportunità di comunicazione che offrono le città, hanno già perso abbastanza a causa dei social e delle nuove tecnologie digitali.
Quello che mi auguro è di non assistere a una vera e propria fuga verso le campagne, perché è qualcosa che non ha mai portato benefici alla società, se non la mera sopravvivenza dell’individuo a scapito della cultura e dell’arte, della differenza e della varietà. Noi abbiamo bisogno della cultura. Tra l’altro, non c’è abbastanza campagna per tutti. E poi è sempre un peccato quando viene sprecato ciò per cui l’essere umano è su questo mondo, cioè accrescere la scienza e la comunicazione. Come scriveva Dante: “Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, dove per “canoscenza” è da intendersi la scienza. Senza la città, non solo non c’è incontro, ma nemmeno scienza e comunicazione. Nessuna società può prescindere dal valore che nasce dall’incontro, quindi dalla città e dalle sue imprese, dalle sue arti e dalle sue invenzioni.