MARIA ZAMBRANO: I MITI E LA POESIA DISSIPANO L’OMOLOGAZIONE

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filosofo, docente emerito di Dottrina dello Stato all’Università di Bologna

Non c’è dubbio che le grandi ideologie della tradizione culturale occidentale si siano sviluppate sotto il segno di una tendenza crescente verso la piena omologazione valoriale di tutti gli esseri umani tra loro.
Incominciò la filosofia greca, proponendo il modello dell’uomo razionale, portatore di una ragion pura con le sue categorie intellettuali, ma anche di una ragion pratica regolativa dell’agire individuale e collettivo. Una delle migliori sintesi di questa prospettiva è indicata nelle parole del seicentesco Spinoza: gli esseri umani non devono lasciarsi trasportare da alcuna passione, figlia di amore o di odio, ma solo dalle fredde logiche dell’intelligere.
Anche i secoli di cultura cristiana ci hanno proposto un modello antropologico omologo. Il buon cristiano devoto e pio, ecumenico, universale, degno del paradiso. Tutto il valore formativo riconducibile in quella direzione è compendiato nell’imitatio Christi.
Logiche analoghe pervadono l’illuminismo moderno con il suo modello kantiano di uomo maggiorenne e in grado di decidere da solo. Autonomo e responsabile, libero e capace di stipulare contratti privati e sociali.
I movimenti emancipatori della democrazia moderna, del socialismo e dello stesso femminismo sono avvenuti in larga parte sotto il segno del livellamento e dell’uguaglianza.
I lavoratori diventano simili ai proprietari, le donne acquistano gli stessi diritti dell’uomo. Nelle urne “uno vale uno”.
A insinuare il dubbio che tutte queste tendenze potessero essere dannose per l’evoluzione della specie umana non sono stati in tanti. Cito, a mo’ di esempio, due grandissimi filosofi: Erasmo da Rotterdam e Friedrich Nietzsche. Erasmo, nel suo Elogio della pazzia, prende come bersaglio della sua satira proprio il conformismo rispetto alle tendenze dominanti nella società, agli insegnamenti dei saggi e dei teologi, al narcisismo dei maestri e dei leader. E indica come alternativa positiva l’esaltazione della follia, la madre delle differenze e delle stranezze.
Ma Nietzsche è andato molto più in là di tutti: ha messo sotto accusa tutta la tradizione della cultura occidentale, colpevole di avere determinato, con le sue indicazioni universalistiche e omologanti, la graduale decadenza dello slancio vitale che è nell’uomo e la lenta ma inesorabile trasformazione del genere umano in gregge. Pecore, appunto, come diceva Dante: “Quel che l’una fa le altre fanno”. Non è un caso che proprio Nietzsche sia stato indicato come un folle e che il suo pensiero sia rimasto a lungo ignorato o, peggio ancora, deformato in un’apologia del razzismo e del nazismo. In un universo omologo, la differenza diventa pazzia.
A partire dal secondo dopoguerra, il dubbio sulla validità antropologica di queste diverse prospettive omologanti presenti nella cultura tradizionale è andato crescendo. Voci autorevoli si sono levate nei vari mondi della cultura.
Pur cercando di non cadere in una filosofia della storia rovesciata in senso negativo, come appariva quella nicciana, molti intellettuali hanno cominciato a evidenziare la pericolosità dell’omologazione sotto il segno crescente della scienza e soprattutto della tecnica.
La rinascita kierkegardiana, la fenomenologia di Husserl, il pensiero di Heidegger, la voce poetica di Pasolini. L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse segnò nel Sessantotto il livello più rivoluzionario di queste nuove analisi e, insieme a lui, si mosse tutta la Scuola di Francoforte di Horkheimer e Adorno. Tra le tante voci critiche che si muovono in questa direzione, ho trovato particolarmente stimolanti quelle degli spagnoli Josè Ortega y Gasset e della sua allieva Maria Zambrano. Al centro della loro riflessione c’è il concetto sociologico dell’uomo-massa e la condizione difficile in cui viene a trovarsi la vita umana nella modernità.
Zambrano, che ha vissuto molta parte della sua vita in esilio dalla Spagna franchista e ha insegnato filosofia ed estetica in molti luoghi del Sudamerica e dell’Europa, solo recentemente incomincia a essere riconosciuta come una delle maggiori coscienze critiche del nostro tempo.
Forse a causa del carattere prevalentemente letterario dei suoi scritti si è voluto a lungo considerarla una specialista di filosofia estetica. Ora, se è innegabile che lo stile della sua scrittura tenda più a mostrare ciò che dice e a farlo vedere, anziché a dimostrare logicamente gli argomenti, sarebbe un grave errore ricondurre tutto il suo pensiero alla mera categoria estetica dell’arte e della poesia.
In realtà, al centro del suo pensiero, c’è sempre una riflessione a tutto campo attorno a quella direzione di ricerca che sta dietro la parola storicismo. E lo stato del mondo contemporaneo è quello di vivere senza il divino. “È da ben poco tempo, lei scrive, che l’uomo racconta la sua storia, esamina il suo presente e progetta il suo futuro senza tener conto degli dei, di Dio o di qualunque altra forma di rappresentazione del divino. E tuttavia questo atteggiamento è divenuto così abituale che anche per comprendere la storia del tempo in cui viviamo dobbiamo fare una qualche violenza su noi stessi. Perché lo sguardo con cui contempliamo la nostra vita e la nostra storia si è esteso senza meno a tutta la vita e la storia”.
Dunque, le nostre conoscenze storiografiche, per quanto ricche e scientifiche, non possono mai restituirci l’effetto delle esperienze del passato, tutte intrise di religiosità e di divino.
Zambrano però non ritorna acriticamente alle filosofie della storia che avevano avuto grande fortuna nell’Ottocento e neppure aderisce alla radicalità della critica nicciana.
Tutt’altro. Sulla scia del suo maestro Ortega, concentra la riflessione sul momento originario del passato, quello in cui è nata l’autocoscienza individuale. È un punto di partenza obbligato, dunque, questo riconoscere in partenza l’unicità e la diversità dell’esistenza umana.
La storia tutta va ripensata controcorrente.
Per comprendere questa nuova prospettiva bisogna portare il pensiero e l’immaginazione ai limiti dell’essere e del linguaggio.
L’archè da cui deriviamo non è né la physis dei greci né il Dio ebraicocristiano.
Senza e prima dell’identità umana, ciò che chiamiamo natura è solo una grande foresta, un buio totale.
In principio c’era il Caos, questa è la vera cosmogonia. Senza l’uomo l’ontologia è insignificante e buia. Il Caos e la notte iniziale sono un universo sacro, cioè separato e lontanissimo di cui non possiamo dire nulla.
Dal caos indistinto si esce con l’apparizione degli dei. Sono essi gli apportatori di luce, di immagini, di enti. Sono essi all’origine del mondo, dell’ordine, del cosmo armonico. Soltanto con la creazione degli dei gli uomini incominciano a poter vedere la realtà. Sono i miti creati dagli uomini a consentire, con la loro narrazione, di dare un nome alle cose. Il pensiero ordinato e razionale, il Logos, viene dopo. Il Caos è confuso e senza nome, il mito è il primo modo di dare un nome e un ordine alle cose.
Creatore del mito è l’uomo. Davvero misteriosa e sacra è la nascita della coscienza spirituale dell’uomo, il sorgere della coscienza di sé nei figli della terra, che erano solo animali vaganti nella foresta, ma che il timore degli dei rende pii e devoti.
Prima della nascita dell’autocoscienza c’erano gli dei, i titani, e le lotte al loro interno e fra loro. Il mito non intende dimostrare nulla, lascia l’inizio nel mistero del Caos e della notte: lascia l’uomo nell’insicurezza del suo essere e del suo destino. Caos e notte mantengono sempre la loro misteriosità e ambiguità originaria. Nessuna ontologia può darsi al di fuori delle rappresentazioni umane. Tutto mantiene la sua misteriosità originaria.
Prima della creazione degli dei non c’è stata alcuna storia. Nel mito non è data la possibilità di superare i limiti del pensiero. Il mito lascia il mistero e la Notte come fondamenti irrisolti.
L’unica luce che appare e scompare nella sua ontologica leggerezza è quella che circonda i miti degli dei.
La poesia è il vero campo nel quale si esplica il canto della libertà dell’uomo.
La libertà non trova spazio se si rinchiude dentro gli schemi della filosofia e dell’ideologia. Il divino non può essere racchiuso dentro il rigore della nostra logica. Solo il divino contiene quella follia che consente a ognuno di essere se stesso.
Ecco il cuore della critica al mondo contemporaneo: la scienza e la tecnica hanno pensato di sostituirsi al sacro, di spiegare il mondo dentro i loro schemi rigidi. E, ciò facendo, hanno imprigionato l’uomo, l’hanno ridotto a un concetto astratto, a una maschera perennemente ripetitiva e inutile.
Il nostro tempo ci mostra solo le rovine di un tempio che è stato interamente distrutto. Ci restano solo il vento, la pioggia e il calore del sole.
L’erba che è cresciuta tra queste pietre, il muschio, l’edera, mentre l’opera dell’uomo sembra cancellata quasi del tutto. Il tempo sembra avere consumato cose e uomini e lasciato solo rovine.
La critica di Zambrano colpisce la tecnica e la scienza, ma anche il cristianesimo.
Ciò che esso ha prodotto sulla scena della storia è soprattutto l’omologazione morale e spirituale delle masse.
Bisogna ripartire da una visione dell’uomo che sia capace di restituirgli la sua originaria unità. Per dirla con il linguaggio classico della filosofia, è finita l’era di un primato della ragion pura, con la sua ambizione di adeguare le cose alla mente in modo freddo e disinteressato. Ma è finita pure l’epoca dell’esaltazione di una ragion pratica affidata alla morale, alla politica, al lavoro, al consumismo, al pragmatismo miglioristico della società.
Ciò che rende l’uomo veramente tale, la sua vera essenza, è la capacità creativa, far nascere nuove mitologie dal nulla. La stessa che l’uomo ha saputo esplicare dalle origini con la sua invenzione poetica.
Se dunque il mondo non ha senso in sé, allora, è solo la coscienza di ognuno, nella sua ricchezza e molteplicità, che può contribuire a crearlo. Solo ciò che dal nulla viene creato dall’uomo è il regno della libertà. Solo la libertà è di per sé spazio di ricchezza e pluralità.
Gli uomini di oggi sono collegati tra loro con circa 35 miliardi di connessioni informatiche. Si dice che nel 2050 ci saranno 75 miliardi di connessioni.
Ma neppure una ragnatela così potente e omologante potrà mai distruggere la capacità di essere libero e differente.
La forza creativa dei miti e della poesia non è morta, anche se rischia seriamente di scomparire nelle prospettive dell’uomo massa.