IL CASO SCHUMANN: DISAGIO, NON MALATTIA MENTALE

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psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione Culturale Progetto Emilia Romagna

Quando, a metà degli anni novanta, con Vittorio Volterra presentammo a Bologna il libro del grande psichiatra e psicanalista francese Jean Oury, Creazione e schizofrenia (Spirali), posi la questione se e quando sarebbe venuto il tempo di una psichiatria scientifica, una psichiatria non ideologica, non farmacologica, non neurologica, non fenomenologica. Una psichiatria che non voglia eliminare la psicanalisi, ma non si camuffi da psicanalisi. Una psichiatria scientifica perché tiene conto della scienza della parola, non dei postulati della scienza del discorso che, da Aristotele a Kraepelin, presumono l’antitesi tra normalità e follia e appoggiano la normalità sul principio d’identità, di non contraddizione, di terzo escluso. Una psichiatria che tenga conto dell’inconscio, dell’idioma, della logica particolare a ciascuno. Una psichiatria dell’accoglimento del disagio nella parola, un’arte e una scienza del colloquio come preambolo per la cura.

Non ho visto molta psichiatria di questo tipo in questi anni, segnati semmai da un vertiginoso aumento di psicofarmaci e di trattamenti sanitari obbligatori, da noi sempre respinti. Con la cifrematica, abbiamo stigmatizzato l’uso dell’elettroshock, non avalliamo le mozioni per la riapertura degli ospedali psichiatrici, combattiamo l’introduzione in Italia degli psicofarmaci per i bambini, come il Ritalin. C’interessa il disagio come virtù del principio della parola, come introduzione delle cose nella parola, non come forma di malattia mentale. Nulla nella parola e nel pensiero è malato, come abbiamo inteso discutendo i libri di Giorgio Antonucci. E quel che viene addotto come malattia mentale esige un’elaborazione e un intendimento, virtù dell’ascolto, non una consacrazione farmacologica.

Per questo ho letto con interesse il libro Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio (Spirali), di Uwe Peters, docente di neurologia e psichiatria, già vicepresidente dell’Associazione mondiale di psichiatria, di cui avevo precedentemente apprezzato gli interventi ai Festival internazionali del secondo rinascimento. Nel libro ho trovato, avis rara, le indicazioni di una psichiatria scientifica, che apre il caso anziché chiuderlo, che non fa diagnosi di malattia mentale ma la mette in questione. Il suo non è un manuale di psichiatria (ma nemmeno un libro di antipsichiatria), e tanto meno una patografia, una biografia che trasforma la vicenda di un personaggio in caso patologico: è un’indagine attenta e ricca di colpi di scena, quasi un thriller, dei tredici giorni che precedettero il ricovero di Robert Schumann. Un’indagine straordinaria, perché le categorie psichiatriche non sono utilizzate per diagnosticare malattie mentali, bensì per negarne l’esistenza. Infatti, qui la psichiatria è uno strumento non per cercare i segni della malattia mentale, ma per dissipare i pregiudizi e i luoghi comuni, come occorre che faccia la scienza. Un’analisi delle parole, anche scritte nei documenti, per intendere la logica delle cose.

Uwe Peters non nega il disagio, ma nemmeno lo psichiatrizza: si avvale della medicina, non dell’ideologia. Analizzando un ritratto di Schumann del pittore Jean Laurens, dice: “Nelle pupille dilatate Laurens avrebbe riconosciuto i segni di una malattia mentale. In verità denotano solo ansia. Altri, nel gonfiore del viso credevano di avere scoperto segni di sifilide. In verità, era colpa dell’alcol e della troppa birra”.

Occorre notare però che la non patologizzazione delle vicende dell’artista non comporta per Peters l’adesione alla mitologia romantica, assunta da Cesare Lombroso, per cui la genialità e la creatività comporterebbero necessariamente una dose di follia che giustificherebbe mancanze e eccessi dell’artista. L’artista non è chi può fare quello che vuole, non è l’irresponsabile legalizzato, salvo poi rinchiuderlo quando supera la soglia di tolleranza sociale.

L’annotazione di Peters, “In me non è mai sorto il minimo sospetto di una malattia mentale”, è un giudizio di condanna, non sociale e politica, ma medica e scientifica di chi lo ha portato all’internamento, con varie complicità, compresa quella della moglie Clara, che l’iconografia aveva dipinto così sollecita e premurosa, al punto di prendere per lui decisioni devastanti senza interpellarlo. Molto spesso, in questo caso sicuramente, i rimedi ai presunti problemi dell’altro sono solo rimedi ai propri problemi, con guasti gravissimi, talora con la complicità di scienze che a questo punto non possono essere più definite tali. Tuttavia, l’autore non mira a colpevolizzare Clara, Brahms o altri, dando per scontata l’esistenza della malattia. Le circostanze che hanno provato Robert proverebbero ciascuno, e l’autore fa il paragone, molto interessante, con un manager che debba rinunciare a posizioni di grande rilievo. Questione di lutto, non di patologia, scrive.

La psichiatria di Uwe Peters è scientifica perché non è complice di interessi personali, familiari e sociali contrabbandati per medici. Non è nemmeno complice dell’artista, che, proprio perché non malato di mente, ha il diritto-dovere di creare, ma anche di riuscire a affrontare le difficoltà che incontra.

Quest’esigenza d’integrazione tra le cose è estremamente attuale per ciascuno, e molti, come Schumann, faticano a non soccombere. Nulla legittima però che chi si trova in difficoltà venga portato a deragliare completamente, ci dice Peters. Con lui la psichiatria incomincia a affrontare, più che il rapporto inesistente fra genio e follia, la combinazione tra clinica e verità, essenziale perché divenga una scienza del secondo rinascimento.