DA LEONARDO DA VINCI A GIUSEPPE DE NITTIS: LA RIVOLUZIONE MODERNA

Qualifiche dell'autore: 
editor, direttrice di ricerca, cifrante

L’occasione non si sceglie, perciò non è l’occasione ideale, l’occasione da cercare per fare o per ottenere ciò che si vuole. Quando non si raggiunge ciò che si pensa, quando non si ottiene ciò che si vuole: ecco, quella è l’occasione, l’occasione che arriva con il gerundio della vita, l’occasione che non si pensa, che non si sceglie.

Senza averlo scelto, nascevo nella città stessa, Barletta, in cui, più di cento anni prima di me, nasceva Giuseppe De Nittis, che divenne pittore senza volerlo. C’è un libro a cura della moglie di De Nittis, la parigina Léontine, Taccuino, in cui sono raccolti gli appunti di viaggio e di vita del pittore: Barletta e i paesaggi pugliesi, Napoli e i suoi dintorni, Firenze, Parigi, Londra. Per circostanze e per motivi diversi, entrambi, De Nittis e io, siamo partiti dalla città di nascita per proseguire la formazione altrove, nelle capitali della cultura e dell’arte. Oggi, De Nittis prosegue a viaggiare e a trovare compagni di viaggio, lettori. Oggi, per lui, viaggiano le sue opere, in Italia e in altri paesi. Ed è lì, nelle mostre, che io proseguo a avere l’occasione di “ascoltarle” e di leggerle.

Sul finire del 2019, ebbi la notizia dell’apertura di una mostra dedicata dal Comune di Ferrara a De Nittis. L’annuncio di quella mostra non cadde nel vuoto: le parole e le immagini presero il volo e il vento. Io non ho ricevuto personalmente il biglietto d’invito alla mostra di Ferrara, eppure ero proprio io l’invitata di quell’annuncio: ho sentito il vento di quell’annuncio e non ho potuto esimermi dallo statuto di uditore e di lettore delle opere di De Nittis. Non ho potuto togliermi dalla partita che si era aperta nell’incontro con le opere di De Nittis in anni lontani, quando, adolescente, ero ancora a Barletta. Quell’invito veniva da lontano e andava lontano. La lontananza è una virtù del viaggio, non è una negatività che appanni la memoria né un difetto da cancellare ripristinando la presenza. La lontananza non si annulla mai. Viaggiamo perché veniamo da lontano e andiamo lontano, senza mai essere presenti, né a noi stessi né ai nostri compagni di viaggio. La presenza è quell’abbaglio della vista, di cui ha dato una spiazzante formulazione Luigi Pirandello: la vista “per vedere che cosa? una cantonata”. Nella sua elaborazione, Armando Verdiglione indica che la presenza si trova inscritta in alternanza canonica con l’assenza. Questo canone dell’alternanza presenza-assenza/ rivelazione-nascondimento è la più diffusa convenzione soggettiva, è il modello di produzione del soggetto allo standard.

Con gli esponenti di Ferrara dell’associazione Progetto Emilia Romagna organizzammo una conferenza pubblica in una sala del Castello Estense per il 27 febbraio 2020. Poi, tre giorni prima, il Comune annullò l’evento per le misure di prevenzione del Covid-19. Ma le cose non si fermarono a Ferrara. La partita è proseguita a Milano. Nessuno può fermare il nomadismo degli elementi linguistici della vita: così “De Nittis” viaggiò dal Castello Estense al Castello Sforzesco, dove si trovò accanto a Leonardo da Vinci. E oggi il viaggio prosegue sulle pagine di questa rivista. La nostra dimora sta nel viaggio, nel gerundio della vita. Il nostro statuto è nomade.

La mostra di Ferrara s’intitolava Giuseppe de Nittis e la rivoluzione dello sguardo. Nello stesso periodo fra il 2019 e il 2020, anche altre mostre d’arte in Italia e all’estero attribuivano le novità introdotte dagli artisti nelle loro opere al cambiamento che si sarebbe prodotto nel loro sguardo o nel loro occhio: sguardo moderno, occhio moderno, con una sovrapposizione fra l’occhio e lo sguardo. Alla base degli apparati critici con cui erano allestite quelle mostre, c’era anzitutto l’idea che sia possibile tracciare una “storia dell’arte”, e poi, entro questo tracciato, che si possa trovare la linea del progresso da un’epoca all’altra o la linea genealogica da un artista fondatore di una “corrente” ai suoi epigoni. Questa ideologia presiede tutt’ora all’impostazione dei musei e degli allestimenti, nonché ai programmi di formazione e d’insegnamento artistico in tutto il mondo. Quello che ne risulta è un canone contro l’arte.

Ora, con il titolo della conferenza di Milano Da Leonardo a De Nittis: la rivoluzione moderna, io non ho inteso individuare una successione temporale di quattrocento anni da Leonardo a De Nittis, ma tracciare un paragone ironico: infatti, ciascuno dei due artisti ha contribuito in modo, per dir così, impari, alla “rivoluzione moderna”. Se le cose procedono dall’apertura, che è ironica, se l’impari o l’asimmetria non sono considerati una negatività, un errore da rimediare, allora le cose non rimangono bloccate nella procedura lineare dall’Uno (dove l’Uno sia, per esempio, un luogo di origine oppure un capostipite), né dallo zero inteso come negazione dell’Uno, come il nulla. Si colgono, allora, la particolarità e la specificità di ciascun artista, il modo in cui l’artista è “rivoluzionario” alla nostra lettura nell’attuale.

Rivoluzione: volvo, volgere, rivolgere. Nella parola in atto, le cose (le cose che si dicono, che si fanno, che si scrivono) non entrano in nessuna realtà convenzionale, ma si rivolgono (qui sta la rivoluzione) alla cifra. L’artista sta dove le cose che si dicono, che si fanno e che si scrivono (con la penna o con il pennello) non partono da zero o da uno, ma procedono dall’ironia della sorte, e crescono, si fanno abbondanti, fluenti. L’artista sta dove l’onda, il vento, il volo, il viaggio delle cose non possono essere padroneggiati: nel gerundio del viaggio, l’artista s’imbatte nella proprietà scritturale (il narcisismo della sua vita) e nella veste specifica del suo itinerario, non può che constatarle e non contrastarle medicalizzando e psichiatrizzando la propria vita. E a noi spetta la lettura non psichiatrica, non psicologica dell’itinerario dell’artista nell’attuale del nostro viaggio.

L’onda, il vento, il volo, il nomadismo: questa pressione (o tensione) è narrativa, perché si scrive ed è la forza della parola di cui non c’è monopolio. In virtù di questa pressione narrativa che ci fa viaggiare, in virtù del gerundio del viaggio (vivendo, parlando, facendo, scrivendo), le cose si rivolgono al valore assoluto: la cifra dell’artista. La cifra è il valore assoluto dell’opera, non è il valore in rapporto a qualcos’altro, alle opere precedenti, a una corrente, a un’epoca, al bene della società.

Perché rivoluzione moderna? La storia dell’arte tratta la rivoluzione come rottura, frattura di una linea, di una presunta successione temporale compiuta con una creazione ex nihilo, radicale, sulla spinta di una forza mandante, decreatrice, che ripristini la purezza dell’arte. Una rivoluzione che, cancellando il prose[1]guimento, appunto l’ironia, ha effetti di rovesciamento, di ribaltamento: così l’inferiore diventa superiore e viceversa e i ruoli cambiano solo di posto nella graduatoria. E sarebbero giustificate così la rivendicazione, l’invidia sociale, la vendetta.

Ma la rivoluzione originaria della parola non è finalizzabile dalle dottrine politiche, religiose, sociali, che fanno della parola un mero strumento in mano al rivoluzionario: è rivoluzione moderna, rivoluzione del modo della parola. È il modo della parola emerso con Leonardo da Vinci. Con Leonardo viene sospesa la distinzione fra l’arte liberale (quella dei grammatici, dei letterati) e l’arte meccanica (quella dei tecnici). Leonardo lancia la sfida a suo modo. Scrive: “Io homo sanza lettere” prendo a maestra l’esperienza. Lo scrive senza il peso di un debito da colmare, di un riscatto da compiere rispetto ai letterati, agli umanisti.

La rivoluzione compiuta da Leonardo è una rivoluzione per integrazione (l’integrazione, nell’esperienza, di arte liberale e arte meccanica, di macchina e tecnica, di invenzione e gioco), non una rivoluzione per rottura o per frattura, e nemmeno per progresso o ritorno all’origine. Importa l’esperienza, non l’osservanza dei princìpi delle dottrine religiose, politiche, sociali. Anche le circostanze della vita di De Nittis, che altri potrebbero ritenere sfortunate (leggete il suo Taccuino!), hanno invece favorito la sua formazione libera, fuori dai vincoli accademici ottocenteschi.

Nella vita, ovvero nella parola, la rivoluzione è del gerundio, non è dello sguardo.

Analizziamo proprio l’opera scelta come manifesto dagli organizzatori della mostra di Ferrara: Tra le spighe di grano è un piccolo olio su tavola di cm 35x25 che De Nittis dipinge nel 1873. Due donne sotto un parasole passeggiano fra le spighe di grano e si guardano parlando. Abbiamo bisogno di vedere gli occhi per accorgerci che in questa opera c’è sguardo? No. Basta questo lieve volgere del capo di una delle due verso l’altra, mentre quest’ultima, a sua volta, ascolta con una lieve inclinazione del capo, e noi capiamo che c’è sguardo, c’è parola. Lo sguardo in un volto si sottrae alla visibilità e, in questo senso, non è al servizio della prospettiva: lo sguardo non è punto di vista, ma punto di sottrazione. E ancora, abbiamo forse bisogno di una vocalità, di una verbalizzazione per udire che le donne stanno parlando? No, c’è una voce senza corde vocali, la voce come punto di astrazione. La voce è condizione del silenzio della parola, condizione della luce della parola, di ciò che si ode. Un silenzio sonoro, dove accadono tante cose: le donne si guardano, parlano, ascoltano, camminano. Le dimensioni dell’opera superano di poco quelle del formato A4. L’opera starebbe in una cartellina da portare con sé, in un album fotografico. La fotografia è già qui, prima ancora dell’invenzione dell’apparecchio fotografico. E lo sguardo non deve acquisire i codici della fotografia o dell’ottica, come proclamano invece i comunicati stampa delle mostre, perché sia inaugurata la “rivoluzione”.