LA BUSSOLA DELL’IMPRESA INTELLETTUALE

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Qualifiche dell'autore: 
psicanalista, cifrante, direttore dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Il libro di Paolo Moscatti, La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa – che sono felice di avere curato per la casa editrice Spirali –, a pochi mesi dalla sua pubblicazione (settembre 2021), ha già esaurito la prima tiratura di stampa e si appresta a divenire un manifesto intellettuale delle piccole e medie imprese, uno strumento per instaurare dispositivi nuovi nelle aziende, che non si avvalgono di precetti o consigli, ma prendono come pretesto il racconto del viaggio che la “nave” TEC Eurolab e il suo equipaggio hanno compiuto in trent’anni, a partire dalla sua fondazione, nel 1990.

Perché è importante che gli imprenditori raccontino la loro storia, le loro avventure, i loro sogni, le loro aspirazioni? Niccolò Machiavelli scrive Il principe interrogando “li antichi huomini” e annotando ciò di cui egli fa “capitale”, come afferma nella famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513. Il racconto dell’imprenditore interessa ciascuno di noi in quanto può dare spunti preziosi per orientarci nell’impresa della nostra vita. L’imprenditore non si abbatte di fronte alle circostanze avverse, ma s’ingegna per trovare una nuova via ciascuna volta, se quella che ha percorso fino a quel momento sembra sbarrata. L’imprenditore è il capitano che non abbandona la nave e non perde la bussola, anche quando la nebbia è così fitta da non vedere a un metro di distanza. È chi non cede alla tentazione di “buttarsi”, come oggi purtroppo fanno in tanti, nelle droghe, nell’alcool o in qualsiasi facile consolazione. L’imprenditore non si mette a rimandare, in attesa di capire cosa convenga fare, non “ci pensa”, non pensa che ci sia l’alternativa alla battaglia e alla riuscita: le cose nell’impresa si fanno secondo l’occorrenza, procedendo dalla scelta come questione aperta, come ironia della sorte.

Il libro di Paolo Moscatti è una testimonianza in questo senso, la sua bussola è il cervello che non si può perdere, delegare, relegare in uno scantinato o addirittura “staccare”, come ritiene invece chi si lamenta: “Non vedo l’ora di staccare la spina”.

Ma, attenzione, l’imprenditore di cui leggiamo le avventure in questo libro non è comune, è un’anomalia, è un caso di valore assoluto, che non s’improvvisa, è frutto di letture, elaborazioni, frequentazione di corsi, conferenze, dibattiti: il libro sottolinea più volte che per la riuscita non basta la formazione tecnica, occorre soprattutto l’elaborazione in materia di arte e di cultura, quindi in materia intellettuale. Non c’è cervello, non c’è bussola dell’impresa, come della vita, senza la materia intellettuale, senza arte e invenzione. Come scrive ancora Machiavelli nel saggio Dell’arte della guerra: “Niuno sanza invenzione fu mai grande uomo nel mestiere suo”. Questa constatazione sfata il pregiudizio secondo cui nel mestiere, nel lavoro non ci sarebbe invenzione, ma mera competenza, mentre nel gioco, nell’arte, prevarrebbero l’improvvisazione e l’espressione. Nasce da questo pregiudizio la mentalità che esalta i cosiddetti lavori “creativi” e denigra i compiti cosiddetti “esecutivi”. E nasce da qui anche il disprezzo verso l’imprenditore come “sfruttatore”, un pregiudizio ottocentesco che spesso allontana i giovani dall’impresa e nega loro l’opportunità di valorizzare i propri talenti, attraverso l’arte e l’invenzione, il gioco e il lavoro, che sono inscindibili nel viaggio dell’impresa.

Quanta arte e invenzione constatiamo nella storia di TEC Eurolab! Leggiamo il capitolo La tempesta perfetta: da una parte, imperversava il Covid-19 e, dall’altra, era venuto meno il 30% del fatturato, in quanto il cliente principale del settore dell’aeronautica aveva azzerato i suoi ordini. In quella che poteva apparire una tragedia, che cosa ha fatto il CDA? Ha colto l’occasione per rilanciare i dispositivi aziendali sia all’interno sia all’esterno. Per esempio (come leggiamo a pagina 273), all’interno ha organizzato “corsi sui polimeri, sull’additive manufacturing, sui controlli non distruttivi, ai quali hanno partecipato anche persone che nulla avevano a che fare con quei servizi, con quelle competenze. Fu uno spettacolo vedere tutti i nostri collaboratori, compresi gli amministrativi, seguire le varie puntate del corso di produzione additiva. La squadra c’era e si manteneva unita, coesa, stretta attorno all’azienda”. E, all’esterno, cosa accadeva? “Intanto i commerciali, da casa, continuavano a chiamare i loro referenti presso le aziende clienti. Non erano telefonate di vendita, ma unicamente di collegamento, parlavano di ciascuna cosa: della pandemia, delle condizioni di salute, di quanto stava facendo l’azienda cliente, della cassa integrazione, delle speranze per il futuro, s’incoraggiavano a vicenda, si tenevano in contatto, mantenevano vivi i dispositivi. Un gioco di squadra straordinario”.

Questo gioco di squadra è potuto avvenire perché l’imprenditore, e con lui l’equipaggio, ha sempre avuto un approccio intellettuale alle questioni che doveva affrontare nell’impresa. Ovvero, non ha mai dato nulla per scontato e ha dato priorità ai dispositivi di parola, anziché al successo da conseguire a tutti i costi. Così, è divenuto interlocutore di quanti ha incontrato nel suo viaggio di trent’anni e anche prima che incominciasse a lavorare. Anzi, nel libro troviamo aneddoti, narrati con umorismo e ironia, che risalgono all’infanzia. Con la curiosità intellettuale, l’imprenditore può divenire interlocutore della scommessa, del progetto e del programma di ciascuno: la curiosità intellettuale è essenziale alla ricerca e spinge a cogliere la particolarità, la specificità, le sfumature linguistiche che intervengono in una conversazione. Per divenire interlocutori occorre l’ascolto, occorre non fissarsi sulle idee, dissipare i luoghi comuni, non accettare il pensiero unico, il conformismo, soprattutto quello con se stessi e con le proprie idee. Le idee di cui parla più volte l’autore nel libro invece sono una vera ricchezza, quella che non appartiene a nessuno, sono idee libere, libere di operare alla riuscita di ciò che si cerca e di ciò che si fa.

L’idea di possesso è lontanissima dall’esperienza di Paolo Moscatti, per questo dal libro traiamo anche una lezione rispetto al cosiddetto “passaggio generazionale”, quando sottolinea che i figli non appartengono ai genitori. Finora, nessuno aveva mai affrontato in questo modo il problema della continuità aziendale, e non si è trattato di una soluzione trovata nel momento della resa dei conti, ma di un percorso culturale e di un cammino artistico incominciati quando i figli avevano appena iniziato a leggere e a scrivere e mai interrotti: prima di dormire, Paolo leggeva Dante e Omero ai bambini, Marco e Luca, e Loretta le fiabe, un allenamento al nutrimento intellettuale di cui si “pascono” ancora oggi per cogliere e vincere le sfide poste ciascun giorno dalle loro funzioni aziendali. I genitori non si sono mai preoccupati di risparmiare ai figli i problemi dell’azienda, come invece fanno alcuni che si rifugiano nella work-life balance, nella separazione fra il lavoro e la vita, come se nel lavoro non vivessero. Lo leggiamo a pagina 256: “Occorre tenere conto del fatto che Marco e Luca sono cresciuti a ‘pane e azienda’, nel senso che a tavola, soprattutto a pranzo, si è sempre parlato di lavoro, quindi, anche negli anni in cui i ragazzi non frequentavano l’azienda, ne sentivano comunque parlare, ne condividevano problemi, speranze, risultati”. Quindi i figli hanno sempre ascoltato le avventure di un’azienda che, in modo differente e per vie traverse, sarebbe divenuta un mito. Per vie traverse perché l’azienda non è un immobile, non passa da un proprietario a un altro, non si tratta mai di un passaggio, ma di un passo. Ciascun giovane, per divenire imprenditore, anche se i genitori sono disposti a dargli fiducia e a consegnargli le redini dell’azienda, deve investire a sua volta, deve compiere un passo. Nel libro sono narrati con grande stile i passi che hanno compiuto sia Marco sia Luca e si capisce come non fosse affatto scontato che proseguissero nell’impresa.

Tuttavia, nemmeno in questo ambito, Paolo Moscatti ha la presunzione d’insegnare “come fare”, egli semplicemente racconta, con umiltà e con leggerezza. E la lezione di vita, di umiltà e di generosità che si può trarre dal suo racconto è essenziale per i futuri imprenditori di cui l’Italia ha bisogno per i prossimi decenni. Non dimentichiamo che il 95% del tessuto industriale italiano è costituito da piccole e medie aziende, per cui l’Italia ha bisogno d’imprenditori e ha bisogno di questi racconti, perché altri giovani possano accostarsi all’impresa.

Paolo Moscatti è interlocutore di tantissimi giovani, ma non si mette in cattedra, piuttosto il suo approccio narrativo fa pensare a ciò che diceva Epitteto a proposito della saggezza: “Si appartiene ancora al volgo, finché si addossa sempre la colpa agli altri; si è sulla strada della saggezza, quando si rende responsabili sempre e solo se stessi; ma il saggio non trova colpevole nessuno, né se stessi né gli altri”. In questo senso, la narrazione di Paolo Moscatti è scrittura dell’esperienza originaria, un’esperienza che nessuno potrebbe commentare, giudicare o spacciare come reato di cui trovare il colpevole. In tutto il libro non troviamo mai una nota di vittimismo, neanche nel primo capitolo, in cui il protagonista si credeva veramente senza interlocutori e la bussola ha rischiato di perderla sul serio. Racconta che si sentiva inutile e vuoto, ma non avrebbe mai attribuito la colpa a qualcuno, tanto meno a quell’amministratore delegato della sua azienda che aveva preso la delega letteralmente. Paolo Moscatti non attribuisce mai la colpa a nessuno perché sta dalla parte dei saggi, di quelli che, negli eventi, non vedono colpe, ma ascoltano gli effetti delle cose che si dicono, si fanno e s’intendono per via della loro complessità inestricabile e irriducibile all’unità.