LA LINGUA DELL’IMPRESA NELLA PROGETTUALITÀ SOCIALE

Qualifiche dell'autore: 
CEO e fondatrice di Ginger Crowdfunding

Collaboro con la rivista “La città del secondo rinascimento” da quando ero una studentessa universitaria. E proprio in quegli anni si sono poste le condizioni per divenire imprenditrice. Ero iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, con il progetto di laurearmi in Antropologia culturale. Sebbene quindi il percorso fosse apparentemente concentrato su cultura, filosofia e linguistica, dopo l’incontro con la casa editrice Spirali e la collaborazione con l’Associazione Il secondo rinascimento, sono intervenuti nella ricerca elementi di economia e di finanza. Tra le altre cose, infatti, si trattava di trovare investimenti e investitori che scommettessero nei progetti editoriali, artistici e di ricerca. E per questo era necessario giungere a una combinazione fra cultura e finanza. Proprio per questa via, è entrata la lingua dell’impresa nella mia vita. Quindi, mentre spesso dalla tecnica si giunge alla cultura, come hanno giustamente fatto notare gli interventi precedenti in questo dibattito, nel mio caso è avvenuto il contrario, con mio grandissimo vantaggio. Lungo queste constatazioni, mi sono ritrovata poi a proseguire gli studi sul management alla Facoltà di Gestione d’impresa, sempre a Bologna, ma soprattutto a fondare una mia impresa, Ginger Crowdfunding. Oggi mi occupo di finanza e marketing digitale nel crowdfunding, un settore nuovo che in Italia non esisteva quando siamo partiti con l’attività.

L’esperienza di Ginger Crowdfunding prosegue da nove anni. Uno dei compiti che abbiamo assunto è stato quello di fare ammettere l’importanza del commercio e della finanza in settori in cui apparentemente non rientrano, come l’arte, la cultura e la progettualità sociale. Ci siamo trovati a dover elaborare un modo perché questi progetti andassero in direzione della riuscita: occorreva introdurre in questi settori la lingua dell’impresa, che di solito manca, perché spesso non hanno un approccio pragmatico. E ci siamo accorti che, elaborando strategie di finanziamento, chi gestisce un progetto si ritrova a intenderlo in un’altra luce, in una logica di valorizzazione del messaggio culturale stesso. Mentre, a volte, interviene il pregiudizio secondo cui l’arte e la cultura sarebbero snaturate nella loro ricerca e nel loro messaggio dall’accostamento con il commercio e la finanza. Invece, accade proprio il contrario: nel rendere realizzabile economicamente e finanziariamente un progetto sociale, culturale e artistico, ci si ritrova a compiere un lavoro di traduzione, di diplomazia, di valorizzazione che lo rendono attuabile, da un lato, e più interessante culturalmente, dall’altro.

Stasera ho tratto da questo dibattito molti input e stimoli. Mi è piaciuto moltissimo l’accento posto sul fatto che non c’è un solo modo per fare il mestiere dell’imprenditore, non c’è un modello per dirigere una squ]dra, non c’è alcuna padronanza sulle cose, ma qualcosa accade leggendo, facendo e ascoltando. È così che non si smarriscono la fiducia, la fede nella riuscita, la direzione verso l’avvenire, nonostante i momenti non facili come quello attuale, per esempio, e soprat[1]tutto pensando a chi verrà dopo di noi e a quanti riceveranno il testimone. Anche sulla “questione donna”, sollevata da un’imprenditrice intervenuta prima di me, vorrei dire due parole: molti mi chiedono di raccontare la mia esperienza come imprenditrice donna. È un tema che va di moda e che spesso si risolve con facili rappresentazioni. Non so cosa voglia dire essere “imprenditrice donna”: se da un lato è qualcosa di non indifferente, dall’altro non è significabile dal genere. Forse la questione sta proprio in questa insignificabilità. Forse è qualcosa che avviene lungo le cose che si fanno.