DIRSI TUTTO. L’ARTE DELLA COMUNICAZIONE TOTALE

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giornalista, scrittore, docente di Teorie e tecniche della comunicazione giornalistica, Università Statale di Milano

Nel suo ultimo libro, Dirsi tutto. L’arte della comunicazione totale (Lindau), lei scrive che “ogni sistema di segni, anche il più articolato e raffinato, si appoggia a quello della lingua verbale” e che dunque “il mondo per noi esiste veramente soltanto perché lo nominiamo, è un effetto della parola”. Che cosa comporta questo per la vita civile, in particolare per l’economia, l’impresa, la politica, in cui sembra che debbano prevalere, secondo lo slogan, i fatti e non le parole?

È il potere originario della parola che stiamo evocando: cioè il fondamento della nostra umanità. Per questo le cose, per noi, esistono in quanto sono nominate, dando forma al pensiero. Ma l’origine è, appunto, un atto creativo che determina un salto di qualità rispetto alla legge dell’evoluzione darwiniana. Un salto qualitativo non confinato nella notte dei tempi, bensì presente nelle situazioni più diverse che sperimentiamo continuamente. E non alludo soltanto alle emozioni che intervengono nelle esperienze artistiche e amorose o a quelle dolorose che seguono a una perdita. La parola creativa, il verbo, è anche, necessariamente, il punto di partenza e di conclusione di ciascuna esperienza civile, economica, imprenditoriale, politica che non sia soltanto ripetizione sterile del già noto, bensì ricerca del nuovo. I “fatti”, se non sono vivificati dalla parola creativa, dall’invenzione verbale, sono fin dall’inizio destinati a decadere e a spegnersi nel nulla.

Se la parola decide della realtà e della verità, c’è il rischio che chi comunica eserciti il potere su chi riceve il messaggio, e possa stabilire quel che è giusto o sbagliato, o addirittura quel che esiste o meno. Può fare qualche esempio?

Il potere è inseparabile dalla parola: essa, proprio perché centrale nella nostra esperienza umana, genera attorno a sé ciò che nel libro definisco “campo del potere”. È un’utopia la pretesa di liberarsene, come dimostrano purtroppo ampiamente i grandi progetti falliti di redenzione dell’umanità su base totalitaria: nazionalsocialismo, comunismo, islamismo radicale e così via. Il potere della parola è nostro compagno di strada anche attraverso i pregiudizi, le ideologie di cui tutti siamo necessariamente portatori, perché altrimenti non saremmo in grado di scegliere e giudicare quanto ci viene proposto.

Al campo del potere – questo è un asse portante del libro – si contrappone però quello della libertà, collegato alla capacità espressiva e rigeneratrice della parola originaria, cui facevo riferimento prima. In questa dialettica costante fra i due campi si svolge la nostra comunicazione quotidiana.

Esiste però una distinzione fondamentale. Mentre il campo del potere viene incontro ai nostri pregiudizi, alle nostre ideologie, alle nostre empatie, al bisogno di uniformarci alle regole ufficiali, quello della libertà richiede un costante lavoro su se stessi, una sospensione delle nostre certezze, una capacità di uscire dalla nostra corazza ideologica per confrontarci con l’altro, l’inaspettato, l’inquietante, lo spaventoso, il miracoloso. Il prezzo personale da pagare per conseguire questa libertà è alto, ma il risultato che si raggiunge è impagabile.

L’esempio del “neonazismo” inventato da Putin per la sua aggressione a un Paese considerato ostile è quanto mai calzante: serve a far scattare nei cittadini post-sovietici il riflesso condizionato della Schrekbild, del terrore per il nemico feroce in agguato. E naturalmente a occultare il fatto che il nazismo – inteso come culto del sangue, della terra, della lingua e della religione nazionale – è parte integrante precisamente dell’ideologia su cui Putin si sostiene.

Il paradosso del potere è che quanto più trova la sua consistenza nella comunicazione, tanto più cerca di proporsi come reale e naturale, fondando la sua forza su un’apparente naturalezza e necessità obiettiva. Quali sono gli strumenti con cui si costruisce e si mantiene questa impostura?

Questo è un altro degli aspetti centrali che affronto in Dirsi tutto. Il potere che si esprime attraverso la parola, e quindi il comando, ha bisogno di presentarsi come “naturale”. Sfrutta le nostre ansie e i sensi di colpa. Si maschera da legge naturale, cui sarebbe futile opporsi, mentre ne è soltanto un camuffamento, un prolungamento ideologico. Si sforza in realtà d’imporre una sua egemonia totale, o quasi, sugli individui e sulla società di cui vuole prendere possesso.

Questa potenza, se la consideriamo con attenzione, non ha niente di necessario e non è onnipotente: semplicemente si basa sull’interesse dei dominanti, sulla vulnerabilità dei dominati e sulla possibilità di replicare indefinitamente la sua stessa esistenza. Essa continua a suggerirci l’idea che tutti, poiché facciamo parte della natura immutabile, siamo tenuti ad assecondarne i precetti: l’egoismo, la selezione naturale degli esseri, la soppressione di quelli inadatti o superflui, la velocità di adattamento e il mimetismo, la sottomissione al più forte, la libidine del comando e del successo, l’anelito a prolungare il più possibile l’esistenza. Tentazioni cui pochi sfuggono, perché solleticano istinti inconfessabili e profondamente radicati in ciascuno.

Da Platone a Putin, i totalitarismi si fondano sulle fake news di Stato, indicando non solo quel che non si può dire, ma anche quel che si deve dire, stabilendo chi deve parlare, di cosa si deve parlare e di come si deve parlare. In questo modo quel che viene negata è proprio la parola…

È un fenomeno patologico, e inquietante, un incubo della comunicazione che ritroviamo a volte nella letteratura distopica, come in certi esempi di fantascienza cinematografica. Quando esiste un unico sistema ideologico autorizzato – e ad esso si è tenuti ad appartenere – esso genera un disturbo della prospettiva, dà l’impressione che la lingua obbligatoria – la “neolingua”, per dirlo con George Orwell – di cui la parola è prigioniera, includa tutta la realtà. Di conseguenza, chi ne è vittima si convince che è impossibile sfuggirle.

Allora lo spazio mentale di ciascun individuo si restringe, sin quasi a dissolversi. Infatti, se l’ideologia del mio vicino, dell’amico o del collega di lavoro risponde al mio stesso sistema di aspettative e valori – quello ufficiale –, ogni parola che pronuncerò dovrà tenere conto delle possibili sfumature interpretative, come delle probabili reciproche associazioni mentali, avendo cura di non varcare il confine implicito di ciò che è consentito. Andrà così restringendosi progressivamente il campo della comunicazione reale, in modo da escludere preventivamente qualsiasi equivoco e conflitto. Una deviazione dalla norma equivarrebbe a una dichiarazione di dissenso, a una confessione d’incredulità o addirittura a un attentato contro il modo di pensare corrente.

Rinunciare al free speech, alla libertà della parola, è come consegnare le chiavi della libertà espressiva, e di pensiero, a un qualche onnipresente comitato centrale di sorveglianza, che s’insinua in ogni nostro discorso orale, scritto, o persino sognato, spiandoci e inducendoci all’autorepressione della parola. È come se un invisibile censore, appollaiatosi sulla nostra spalla, sindacasse instancabilmente ogni nostra mossa.

Lei sottolinea che il potere comunicativo, piuttosto che con la repressione e la violenza, solletica istinti inconfessabili, predilige il soddisfacimento di inclinazioni e desideri, allo scopo di ottenere spontaneamente il consenso. Gli influencer, le community e i gruppi nei social espandono questa tendenza?

Certamente, ed esiste anche un termine ufficiale che indica questa nostra disposizione ad allinearci: confirmation bias, ovvero “predisposizione alla conferma”. Dal momento che, come sappiamo, tutti noi abbiamo bisogno di pregiudizi e ideologie per decifrare la realtà e reagire tempestivamente ai suoi stimoli, quando troviamo un gruppo, una persona, un partito che viene incontro ai nostri gusti, siamo portati ad accoglierne, approvarne e a rilanciarne il messaggio, traendone anche una sorta di godimento narcisistico. Le community sono il terreno ideale per lo sviluppo, la diffusione di queste verità che si autosuggellano, moltiplicandosi. Se il potere comunicativo viene esercitato da un influencer prestigioso, almeno ai nostri occhi, siamo tentati di farlo nostro senza approfondimento critico, rilanciandolo sotto forma di tweet, post, video, email eccetera. È come se la verità si autoproducesse per conferma numerica. Se la fonte è appetibile, prestante, cool, come può esserlo un leader politico, una modella avvenente o un divo rock, il godimento è anche maggiore, perché induce in noi una sorta di identificazione, noi – per così dire – siamo lui (o lei).

Il campo del potere raggiunge così il suo risultato finale: imprigionare la parola per osmosi ed empatia, senza dover ricorrere alla repressione.

Nel suo libro Perché il mondo arabo non è libero (Spirali), lo psicanalista Moustapha Safouan scrive che i dittatori sanno bene che per dominare un territorio occorre cancellare la sua memoria e la sua lingua. È quello che è accaduto all’Iran di Khomeini, che ha imposto l’obbligo della lingua araba nella scuola e nei test d’ingresso all’Università e quello che vuole fare Putin imponendo la lingua russa nei territori invasi dell’Ucraina. Ma anche la cancel culture, così in voga negli Stati Uniti, e non solo, vuol negare la memoria intervenendo sulle parole, modificando il loro senso e il loro valore, omologando tutto a tutto…

L’omologazione, infatti, è lo strumento principe di ogni ideologia totalitaria. E davvero non la troviamo solo in Iran o in Russia. Oggi in Occidente si è sviluppata una tale ideologia potenzialmente totalitaria, differente da quelle del passato novecentesco e definibile come mass-radicalismo. Essa agisce infettando e riducendo tutti i canali comunicativi al cosiddetto pensiero unico, noto comunemente come “politically correctness”, correttezza politica. La cappa di repressione linguistica del mass-radicalismo si esercita in tutti i campi, specialmente nei media, e in particolare attraverso la neutralizzazione del linguaggio, dal quale devono essere espunti tutti gli indicatori specifici (sesso, età, religione, nome di famiglia eccetera) allo scopo di trasformare i parlanti in una massa amorfa, atomizzata, quindi facilmente controllabile e indirizzabile verso fini prestabiliti. Lo sradicamento del passato dettato dalla cancel culture ne è uno degli esempi più vistosi, come l’ideologia woke che ne è alla base. Ma lo è anche il metodo schwa: si tratta di una de-sessualizzazione del linguaggio inserendo asterischi al posto delle terminazioni di genere delle parole. O, più in generale, sostituendo la parola “sesso” – portatrice di differenze, conflitti, imprevedibilità – con “genere”, termine neutro che invece può essere facilmente addomesticato e manipolabile a piacere. Lo scopo apparente di queste ideologie coincide con la promessa utopistica di realizzare tutti i desideri, consentendo a ciascuno di “essere quello che vuole essere”. Ma in realtà mira all’“uomo nuovo”, risultato di una totale manipolazione degli esseri umani.

Lei scrive che il giornalismo non ha da essere un potere, né un contropotere, ma un antipotere. Qual è l’apporto che il giornalismo può dare alla civiltà della parola, anziché all’incultura della luogocomunicazione?

Il giornalismo, cui è dedicato un capitolo specifico di Dirsi tutto, agisce su un crinale pericolosissimo della comunicazione: si trova cioè al confine fra il campo del potere e quello della libertà. Da sempre i media sono stati creati e utilizzati per esercitare un certo potere: è una loro dimensione ineliminabile. Ma la parola libera, pur sottoposta a così potenti condizionamenti, è anche a disposizione dei giornalisti e dei comunicatori, non esclusi quelli che si occupano di pubblicità, di marketing e di pubbliche relazioni. La creatività originaria del verbo funge da antipotere anarchico e corrosivo e fa sì che nessun mascheramento del potere, per quanto pervasivo, possa operare all’infinito. Prima o poi, ogni dispositivo autoritario esercitato sulla parola decade e muore (o, per usare una espressione comune ad Einstein e a Popper, “viene travolto dalle risate degli dei”). I giornalisti e i comunicatori, dunque, devono fare propria questa creatività della parola, far sì che funga da antipotere. Per farlo sono costretti a rischiare di persona, spesso la carriera, ma a volte anche la vita. Ecco perché stampa, radio, tv e internet non possono essere considerati “Quarto, Quinto o Sesto” potere. Se infatti si traducessero in “contropotere” – rispetto a quelli di istituzioni, politica, economia, finanza, cultura, eccetera –, finirebbero con il riprodurne, rovesciandoli, tutti i difetti. Devono invece esercitare un “antipotere”, liberando negli articoli, nelle inchieste, nelle interviste e nelle recensioni la creatività della parola. Qualsiasi potere, anche in una società democratica, costruisce le sue gabbie ideologiche: il compito pericoloso ed esaltante del libero giornalismo consiste nell’aprirle. Mettendo così il pubblico nella condizione di giungere autonomamente a cogliere la novità e la verità delle notizie, moltiplicando i bit informativi di cui esse sono portatrici.