LA FAMIGLIA ARBITRARIA

Qualifiche dell'autore: 
editor, direttrice di ricerca, cifrante

L’arbitrarietà è virtù del principio della parola, che nessuno può attribuire a un soggetto. Anche le formule più comuni della soggettività – “io penso”, “io dico”, “io faccio” – non evitano lo sbaglio di conto, la svista, l’errore di calcolo. Le dottrine religiose, psicologiche, politiche si reggono sull’ipostasi di un soggetto che pensi le parole e le cose, le soppesi, le comprenda, le collochi al loro posto in un ordine funzionale alla loro padronanza. È questa volontà ideale, questa intenzionalità, quell’arbitrio del pensiero che gli umani attribuiscono alla divinità creatrice, oppure a se stessi come creativi e procreativi per procura divina. Ma l’intenzione non è l’altro nome della volontà, non dipende dall’arbitrio del pensiero, è ancora tensione, è ancora tendenza delle cose verso il valore. Non c’è l’arbitrio dell’intenzione, né l’arbitrio del pensiero, perché l’intenzione e il pensiero sono nella parola, non sono nelle mani di Dio o di Satana, ovvero non sono gratuiti per gli umani.

Qualcosa accadde quando fui in grado di leggere da sola la Bibbia, il primo libro che ebbi per le mani. Il libro prometteva una favola e invece incominciava con la parata di una superstizione: Dio pensava le cose e le cose erano. E le cose che erano risultavano uguali a quelle pensate: una divinazione perfetta. L’imprevisto, l’incidente, la sorpresa erano assorbiti a favore del pensiero unico. Ma raccontando ciò che leggevo, nel gerundio di questo atto, incorrevo nella traduzione, nella trasmissione e nella trasposizione, ovvero nel disturbo, nella lacuna, nel fiasco dell’esperienza della parola. Nel gerundio s’instaura la realtà linguistica, ciò per cui anche la Bibbia, che doveva assolvere alla costituzione di un popolo e di una nazione, non è esente dalla realtà ebraica (la realtà della dissidenza della parola) e dalla realtà cattolica (la realtà della parola integra).

La Bibbia, che incominciava con l’arbitrio dell’idea di Dio, proseguiva con l’assegnazione di una parentela ideale. Era una parentela completamente pensata, programmata e gratuita: un dio che, dopo avere voluto creare e provvedere alle sue creature, le metteva in debito totale, le amava rimanendo nascosto e assegnava loro un destino già interamente disegnato da lui. Dio pagava tutte le loro debolezze passate, presenti e future, con il sacrificio del figlio prediletto, che avrebbe salvato tutti gli altri suoi figli attraverso il suo sacrificio. Il destino assegnato agli umani era unico: il ritorno alla famiglia di origine.

Ma, presto, constatai quanto l’arbitrio di questa famiglia ideale fosse fatuo e come non ricoprisse affatto l’arbitrarietà della vita. Non c’è scrittore, poeta o artista che non abbia testimoniato, anche suo malgrado, su pagina, su tela, su pietra o su schermo, che l’arbitrarietà avvolge anche la famiglia nella parola.

La famiglia: la traccia che nessuno sceglie, che nessuno può cancellare o negare. La famiglia è arbitraria. Chi prende questa arbitrarietà per arbitrio gratuito e rifiuta la propria famiglia, ritenendola una combinazione malriuscita di persone, un nido di negatività, si condanna a riprodurla per mantenere ideale il modello. Mentre chi ritiene di appartenere, per fato positivo, a una famiglia ideale, si ritrova imprigionato nella fantasmatica, per preservare la propria idea di famiglia.

La famiglia, nella parola, resta arbitraria. Invece le dottrine psicologiche, biologiche, religiose, sociologiche ne fanno uno stampo che determina la vita, un puro e radicale arbitrio, obbligante e condizionante. Ed è proprio perché è arbitraria che la famiglia, per ciascuno risulta – parodiando – principesca e che ciascuno, nella parola, è principe: ciascuno, uno statuto intellettuale. Altrimenti, “ognuno” si trova a oscillare nell’alternanza fra famiglia celeste o famiglia infernale o nell’alternativa fra bella famiglia o brutta famiglia, e a situarsi ora nell’uno ora nell’altro dei livelli della piramide sociale: ora in basso, come figlio di emarginati, ora in alto, come figlio di re, o figlio di dio, del cielo o del sole. E ognuno si obbliga a un viaggio d’iniziazione, di pena e di penitenza fra basso e alto, fra discesa e salita, fra salvazione e perdizione.

Qualcosa accadde anche quando, al capitolo n. 2 del Vangelo secondo Luca, lessi di un bambino, il cui arrivo gli anziani di Gerusalemme raccontavano di stare attendendo da tempo. Mi sembrò che anche per me, in quella pagina, ci fosse un appuntamento. Fu allora che intervenne il distacco dai parenti che vedevo ogni giorno, dalla città dove nascevo, dall’epoca presente. Non mi impressionavano le campane bibliche che promettevano la salvezza o la redenzione né la recitazione delle formule profetiche che cercavano la loro realizzazione, quanto piuttosto che il bambino avesse l’audacia di parlare in pubblico senza reverenza per la sacralità del tempio, senza ossequio per la sapienza dei dottori. Non mancai l’appuntamento che la pagina mi dava ogni giorno. E a causa di quell’appuntamento, che era anche voce, sguardo e specchio, e che non s’incarnava in nessuno dei parenti, proseguivo a cercare altre storie, proseguivo a leggere. Così non mancai la solitudine che era la condizione della lettura, dove non trovavo compagnia. Non mancai nemmeno l’audacia con cui non mi davo pensiero della parentela, quando leggevo, né sentivo la nostalgia, il ritorno a un luogo di origine.

Non c’è libro di riferimento di una qualsiasi dottrina religiosa, per quanto vincolanti siano le sue formule ermetiche, per quanto acquietanti siano le sue soluzioni, per quanto stringenti siano i suoi algoritmi, che espunga dalle sue pagine l’arbitrarietà, virtù del principio della parola.