L’ATTO ARBITRARIO: UNA COMBINAZIONE CAPRICCIOSA

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amministratore delegato di Curti Costruzioni Meccaniche Spa, Castel Bolognese (RA), e vice presidente di Confindustria Emilia-Romagna

Arbitrario è l’atto che non si conforma alla convenzione, è l’atto anomalo, originario, libero, è atto di arte e invenzione lungo cui incomincia qualcosa che non è mai accaduto prima. Il Gruppo Curti, che da oltre sessant’anni produce macchine automatiche e sottoassiemi complessi per diverse applicazioni industriali, è anche la prima azienda italiana a produrre elicotteri ultraleggeri con 600 kg di peso e una potenza di 100 kW, tanto da ottenere la certificazione VDS (Volo da Diporto o Sportivo). Questi elicotteri consentono di raggiungere una velocità massima di oltre 185 km/h e una da crociera di 160 km/h. Un primato già raggiunto a livello mondiale con lo stesso Zefhir, l’unico elicottero munito di paracadute balistico. La ricerca ingegneristica che caratterizza le vostre aziende dimostra come l’atto d’invenzione non dipenda mai da una volontà personale…

L’atto d’invenzione può derivare anche da un capriccio, da cui incomincia la ricerca per realizzare un prodotto nuovo da immettere sul mercato. Mio padre, per esempio, produceva componenti per l’industria tessile e per le macchine agricole. Ma a un certo momento si è chiesto: “Perché non facciamo gli attacchi da sci?”. È stato un capriccio, perché questo progetto non riguardava la produzione tradizionale. Alcune competenze meccaniche, e soprattutto elettroniche, per esempio, possono essere esportate in altri ambiti per fare prodotti diversi. Cioè può intervenire una combinazione capricciosa, perché magari l’imprenditore legge una notizia o incontra un fornitore, oppure partecipa a una fiera e improvvisamente trova lo spunto per realizzare una nuova idea, che può germogliare oppure no. Poi, è più difficile sviluppare idee nuove e sostenerle, a volte anche contro la volontà dei più, perché non tutti hanno voglia di rischiare.

Ma, quando parliamo di queste cose, dovremmo chiederci quali sono le condizioni in cui deve operare un’azienda manifatturiera oggi in Italia. Pensiamo per esempio a quanto versa in tasse il settore agricolo e a quanto riceve di contributi rispetto al manifatturiero. Il settore agricolo è sempre stato agevolato, perché considerato un bene primario, ma questo è un pregiudizio europeo, non solo italiano. Quindi potrebbe incominciare a essere considerato bene primario anche il manifatturiero, perché oggi il bene primario è costituito da chi dà lavoro.

Il manifatturiero risente, inoltre, della carenza di tecnici preparati…

Purtroppo adesso non si trova personale neanche in agricoltura. Questo è un problema comune a tanti settori, compreso quello turistico. Un altro problema grande è dato dal fatto che, a fronte di uno stipendio scarso, c’è chi si organizza per integrarlo con altre fonti di reddito. Nell’industria manifatturiera, oltre l’80% dei dipendenti è coperto dal contratto nazionale, quindi il reddito minimo è ampiamente superato, con un importo superiore ai 9 euro l’ora. Poi, c’è un altro 20%, in cui non sono applicati i contratti e allora c’è una sorta di far west. Infine, ci sono tante aziende in cui le assunzioni prevedono contratti di quattro ore di lavoro, ma poi se ne svolgono dodici e quindi lo stipendio non corrisponde più a quanto previsto dal contratto. Questo è sbagliatissmo, perché non possiamo pensare di far crescere un paese con stipendi di 2 euro all’ora. Poi è facile lamentare la denatalità e la fuga di giovani all’estero. Per forza, mantenere una famiglia con questi stipendi è impossibile.

Si parla sempre più spesso di manifattura digitale, promossa a tutti i livelli come occasione per intraprendere nuovi lavori e trarre maggiori profitti. Ma c’è anche chi dice che i nuovi lavori digitali stiano già favorendo nuova povertà…

Io non ho ancora capito cos’è il digitale. Una macchina comandata da un sistema a controllo numerico è manifattura digitale. Possiamo anche fare di più: possiamo collegare varie macchine a controllo numerico tra loro e al sistema gestionale, ricavandone in maniera puntuale l’avanzamento della produzione. Sarò impopolare, ma dire che il problema italiano lo risolviamo soltanto con la digitalizzazione rischia di essere un abbaglio. Sicuramente non si può fare a meno di utilizzarlo, però è un’idealità pensare che possa sostituirsi quasi completamente agli operatori in officina. Avremo, infatti, sempre più bisogno di operai qualificati, che però oggi non si trovano. È illusorio pensare che con la digitalizzazione si potranno sostituire tutti i colletti blu con i colletti bianchi, anche se in parte dovrà accadere. Certamente, se con la digitalizzazione riesco ad aumentare la produttività, il paese nel suo insieme può diventare più efficiente e più competitivo sui mercati. Indirettamente il digitale aiuta, quindi, ma direttamente funzionerebbe soltanto se in Italia fossimo ottimi gestori. Invece abbiamo aziende con grande vocazione creativa, ma poi non abbiamo una cultura dell’organizzazione. L’organizzazione nasce e si sviluppa, infatti, nelle aziende di grandi dimensioni. Ma in questo caso apriamo un’altra annosa questione: in Italia abbiamo prevalentemente piccole imprese e se questa non è solo una questione politica poco ci manca, perché credo che la situazione attuale sia dovuta alla Legge 300 del 1970, chiamata Statuto dei Lavoratori, che consentiva il licenziamento soltanto nel caso di aziende con meno di 15 dipendenti. Noi, per esempio, stiamo acquistando nuovi macchinari, aziende, terreni e abbiamo rilevato il 50% delle quote di un’azienda che abbiamo in Svezia, perché il Gruppo o cresce o si ferma. In Italia crescere è estremamente difficoltoso e costoso che altrove.

Inoltre, in questo paese non si può più costruire. Noi abbiamo 65000 metri quadrati di terreno, di cui coperti 30000, ma non possiamo più costruire, perché abbiamo già fatto anche parcheggi, aree verdi e bacini di laminazione. Perciò, se io domani dovessi ricevere una nuova commessa, non saprei dove costruire. Quindi, sono costretto ad acquistare un terreno a costi molto elevati, mettendo nel conto anche gli alti oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, e solo dopo potrei incominciare a costruire, attenendomi alle norme per l’antisismica e altre “anti” con costi raddoppiati. La politica italiana non vuole capire che bollando l’attività edilizia come consumo del territorio e frenandola con mille impedimenti e prescrizioni, come quella di costruire aziende ideologicamente “belle” – resa allettante dalla promessa d’incrementare l’indice di edificabilità del 10% –, impedisce invece che nascano nuove imprese nel paese. Ma poi, cosa vuol dire costruire un’“azienda bella”? Come se l’imprenditore non volesse costruire qualcosa di bello, quando invece è proprio lui che ha l’esigenza di costruire qualcosa di bello e funzionale in cui i dipendenti lavorino con maggiore soddisfazione. Sarebbe bella un’azienda che avesse i giardini pensili con le piante, che poi diventerebbe un ricettacolo d’acqua? Ho l’impressione che certi burocrati vogliano fare i più bravi, i più belli e i più buoni con i soldi delle aziende manifatturiere.

Allora, l’Italia sarà pure la seconda manifattura d’Europa, ma è molto distante dalla Germania, con un PIL di circa il 16% rispetto a quello tedesco, che è intorno al 27%, mentre la Francia sta investendo su nuove centrali nucleari che consentiranno alle sue imprese di essere sempre più competitive. In Italia, invece, rischiamo di chiudere le fabbriche durante il giorno e di lavorare di notte, quando l’energia costa meno. Le imprese di Francia e Germania non hanno avuto gli aumenti dei costi energetici che abbiamo noi in Italia, mentre in Spagna è lo Stato che ne rifonde integralmente l’extracosto. Basti pensare che in Italia si sta parlando di rimborsare gli extracosti dei primi tre mesi del 2021 sul 2022, quando le nostre aziende hanno già pagato le bollette di giugno e di luglio. E nonostante tutto questo, noi continuiamo a investire. Stiamo acquisendo all’estero un’azienda di carpenteria, stiamo trattando l’acquisto di un’altra nel settore farmaceutico operante nel mercato del Sud Est Asiatico, abbiamo preso in affitto capannoni a Faenza, a Imola, a Ozzano e a Bologna e stiamo cercando terreni per ingrandire l’azienda, ma, come dicevo, i metri coperti non devono superare un certo limite. Quindi, arriva il momento in cui l’imprenditore deve chiedersi se tagliarsi un braccio piuttosto che rinunciare al lavoro. E poi a volte interviene il sistema bancario chiedendo il business plan anche dei prossimi sette anni, quando sui giornali si legge che, a fronte di risultati economici eccellenti, migliaia di impiegati dovranno essere lasciati a casa perché chiudono gli sportelli bancari. Ma i nostri business plan sono realizzati per cercare di crescere e non per ridurre il personale e i fondi che abbiamo utilizzato per gli investimenti in questi sessantasette anni di vita dell’azienda finora sono stati puntualmente restituiti.

Con queste premesse, è vero che proseguire nell’attività d’impresa in Italia è proprio un atto arbitrario.