IL CERVELLO NARRATIVO

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psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Il titolo del convegno Industrial brain. L’apporto del manifatturiero fra crisi energetica e transazione ecologica, i cui testi aprono questo numero del nostro giornale, sembra sottolineare che l’industria, in particolare quella manifatturiera, è in balìa dei due mitici vortici dello Stretto di Messina: secondo la leggenda dei tempi della Magna Grecia, il vortice di Scilla (“la ninfa che dilania”), ovvero la crisi delle materie prime, e quello di Cariddi (“la ninfa che risucchia”), ovvero la transazione verso nuovi modi per produrre e risparmiare energia, che rischia di avere effetti catastrofici, come sottolinea nel suo intervento Silvano Palmieri. Questa transizione sembra riferirsi all’industrial brain, al cervello dell’industria, solo perché, di energia, l’industria dovrebbe produrne di più o consumarne di meno, per motivi sia economici sia ambientali. Ma è questo il compito dell’impresa? Industrial brain è il cervello che serve a risparmiare, a ottimizzare?

Non è così facile. L’industrialbrain indica il cervello industriale, il cervello dell’industria, cioè il dispositivo intellettuale dell’industria, del suo viaggio. È il cervello che nutre l’industria: parodiando, ingenioindustria alitur (l’attività è alimentata dall’ingegno, non l’ingegno dall’attività). Senza questo cervello l’industria non ha direzione. Ma di che cervello si tratta? Di un cervello naturale? Di un cervello neuronale? Di un cervello mentale?

La questione è che l’industrial brain esige la brain industry, cioè l’industria intellettuale. In effetti, se l’industria non fosse intellettuale, se fosse un coacervo di ingranaggi, non avrebbe bisogno di un cervello. Però sembra strano, quasi un ossimoro, parlare di industria intellettuale, particolarmente nel caso dell’industria manifatturiera. Nel manifatturiero è in gioco la mano, e la mano sembra opporsi all’intelletto, da quando quella combinazione tra manuale e intellettuale, che era stata, con Leonardo da Vinci e con Niccolò Machiavelli, la base del rinascimento è divenuta, con la Riforma protestante e con quella cattolica, una dicotomia, un’opposizione: da una parte la manualità, dall’altra l’intellettualità. 

Eppure, nel rinascimento l’”industria” non era la fabbrica, ma l’abilità, l’iniziativa, la destrezza (la mano destra!), ma anche l’intelligenza pratica, l’astuzia. Niccolò Machiavelli scriveva: “Non dei pertanto sperare in alcuna cosa, fuora che nella tua industria”. La mano è intellettuale, l’industria è struttura intellettuale, struttura della parola: industria, da struo, struttura. Il rinascimento è rinascimento della parola e l’industria è industria della parola.

Perché industria della parola? Parlando, ragionando, discutendo, costruendo,vendendo, redigendo le scritture contabili, l’impresa trova nel suo atto, nel suo atto di parola, la sua struttura. Appunti, note, scarabocchi, mappe, grafici, calcoli, preventivi, documenti, contratti, progetti, programmi, messaggi promozionali, comunicati stampa e altro ancora. L’industria è struttura narrativa, è struttura del racconto pragmatico, ben oltre lo storytelling, la rappresentazione sociale dell’impresa. La narrazione dell’impresa è ciò che si dice, ciò che si testimonia, ciò che si scrive ciascun giorno nell’impresa: come distinguere dove finirebbe la parola e dove incomincerebbe l’impresa? In quanto struttura narrativa, l’industria non tollera una struttura chiusa, unitaria, sistemica: per questo l’industria nella parola procede dalla speranza, dal due, dall’apertura. Già per Machiavelli, la speranza è modo dell’apertura, non l’attesa del bene. La struttura narrativa che procede dalla speranza procede per integrazione, integra e combina gli elementi, non procede per unificazione, non ha da unificare, da cercare l’uniformità, la lingua aziendale, la procedura sotto il segno dell’uno, dell’unico, dell’unità. L’industria è intellettuale perché, procedendo dal due e non dall’unità, non è un coacervo di materiali, ma nemmeno un sistema di relazioni interne o di relazioni con l’esterno. Qui il brain, il cervello, non indica la struttura unificante, che gestirebbe queste relazioni, ma la struttura intellettuale: struttura intellettuale del fare, struttura non mentale e non spirituale, ma struttura narrativa e pragmatica.

Solo se l’industria è brain industry, cioè è intellettuale, non sistemica, l’industrial brain, il suo cervello, il cervello dell’impresa, non è il cervello unitario e unificante, non ha da gestire le relazioni tra dipendenti, clienti, venditori e stakeholders. Queste relazioni sono sistemi convenzionali, non sono strutture pragmatiche, e il cervello convenzionale, che trascura la struttura produttiva per rincorrere e aggiustare le convenzioni aziendali, è il cervello degli esperti, cervello conformista, cervello dei certificati del “sistema qualità”. Il cervello che trae l’impresa alla qualità, che non dipende dal sistema conformistico, è il cervello come dispositivo intellettuale: dispositivo razionale, dispositivo di accoglienza, dispositivo di amministrazione, dispositivo di comunicazione, dispositivo di governo, dispositivo di direzione.

Ma nessuno detiene questo cervello, nessuno ne è esperto: questo cervello in quanto dispositivo è ritmo (dispositio in latino traduce il greco rythmós), ritmo dell’impresa, non è il cervello come facoltà di chi dirige, non è il cervello in balìa degli algoritmi algebrici e geometrici. L’imprenditore non è e non ha questo cervello, non è arbitro o artefice: lui stesso si attiene a questo cervello dell’impresa, a questo ritmo, alle sue esigenze, alle sue occorrenze. Questo cervello è dispositivo di direzione, di direzione verso la qualità. Ma se “io” dirigo l’azienda, la direzione si converte nella guida e allora è la direzione ideale, la direzione secondo le mie idee, le idee dell’imprenditore e del manager: allora c’è l’idea di uno, ci sono le idee del numero uno e così l’uno che non conosciamo, l’uno diverso da sé, cioè il frater, ovvero l’uomo, muore sull’altare dell’unità. Perché, come constata la cifrematica, ogni uno cerca le sue certezze soggettive, la sua unità, attraverso la morte del fratello. Distruggere per costruire, come vuole il cervello algebrico e come sostiene l’economista Joseph Schumpeter? Costruire per distruggere, come vuole il cervello geometrico e come sostiene il filosofo Serge Latouche? Così la rovina è certa. Chi segue le proprie idee o le idee proprie dei consiglieri, segue i propri pregiudizi, il più grave dei quali è la paura. E, come scrive Machiavelli: “Molte volte, per la paura solamente, sanza altra esperienza di forze, le città si perdono”.

Oggi, tra gli imprenditori, aleggia la paura. In effetti le insidie sono molte: la mancanza di materie prime, la transizione energetica, la dittatura finanziaria e quella telematica. Ma la paura è l’insidia peggiore: la paura che le cose finiscano, l’energia finisca, i materiali finiscano, la vita finisca fa smarrire la direzione che esige il cervello, il cervello industriale, non il cervello comportamentale, sociale, convenzionale, non il cervello sottoposto all’idea di sé e dell’Altro, non il cervello dellageopolitica e degli energetisti, il cervello degli indovini e dei visionari.

Il cervello industriale non è sorretto dal pensiero forte o debole: è dispositivo rivoluzionario, cioè il dispositivo con cui, facendo (dispositivo pragmatico), scrivendo (dispositivo amministrativo) e concludendo (dispositivo finanziario), le cose si compiono e tendono, si rivolgono alla qualità. Questa tendenza, questa rivoluzione del gerundio dell’impresa, questo rivolgersi delle cose per un’istanza di riuscita era per Leonardo la loro forza, per Machiavelli la loro virtù e per Freud la loro pulsione. Questa rivoluzione non è celeste, questa tendenza non è ideale, la troviamo in atto, è in atto nella domanda. Domanda in atto, domanda nell’atto di parola. Ecco perché di questa rivoluzione, di questa domanda non c’è visione, ma ascolto: quelli che sono chiamati visionari, innanzi alla domanda in atto, non ascoltano, sono sordi.

Eppure, è nella domanda e non altrove che si pongono gli indici della direzione e che troviamo la bussola. Le cose si dirigono verso la qualità, non verso la fine: questa la constatazione del brainworker. Anche quando sembra che nel mercato non ci sia domanda o che ci sia troppa offerta, la domanda non viene mai meno perché è domanda di qualità, cui nessuno può rinunciare, e proprio per un’esigenza del cervello. Ma non c’entrano le endorfine: in quanto dispositivo in direzione della qualità, il cervello, l’industrial brain, è il dispositivo dell’istanza di qualità e dell’approdo alla qualità, cioè alla salute e al piacere. Ce lo indicava già nel V secolo a. C. il medico e filosofo Alcmeone da Crotone, allievo di Pitagora, che fu il primo a stabilire l’importanza del cervello per la salute e il piacere. Scriveva che tutte le sensazioni, quindi il piacere, giungono al cervello e che il loro equilibrio assicura la salute. Ma, dopo di lui, Aristotele negò la portata del cervello, che riteneva troppo freddo per le sensazioni, e localizzò nel cuore la mente e la vita. Un grossolano errore, che ha comportato l’idea che il cuore, anziché il cervello, fosse la base per la salute e per il piacere.

L’industrial brain, in quanto dispositivo di direzione verso la qualità, trae alla salute e al piacere che non dipendono dall’energetismo, dunque non si esauriscono. Perché nel gerundio – parlando, facendo, scrivendo –, la salute non è il benessere, ma l’istanza di qualità, e il piacere non è l’edonismo, ma l’approdo alla qualità. Per questo, per quanto possa sorprendere i detrattori dell’industria, che la ritengono fonte di malattia e di dispiaceri, il cervello dell’industria, in quanto dispositivo di direzione verso la qualità dell’azienda, ma anche della civiltà, non si oppone, ma è imprescindibile per la salute e il piacere, dunque per la vita stessa. Con il brainworking, il cervello industriale, l’industrial brain non è il cervello convenzionale e conformista, non serve a risparmiare e a ottimizzare: è il cervello della salute e del piacere, che non si risparmiano e non si ottimizzano.