IL CERVELLO DELLA FELICITÀ

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psicanalista, cifrante, direttore dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Malgrado proliferino in tutto il pianeta corsi universitari di “scienza della felicità” e osservatori dedicati alla “ricerca della felicità”, che propongono ricette per ottenere, misurare e accrescere il livello di felicità nelle nazioni, nelle aziende, nelle  scuole e nelle famiglie, la felicità non può essere cercata. Le ricerche della felicità si basano sul presupposto che la felicità coincida con il benessere, lo stare bene. Così, ogni dottrina sorge per proporre i mezzi e gli strumenti per stare bene, partendo dal presupposto che questo sia l’obiettivo universale perseguito da ogni uomo e da ogni donna. E che cos’è il bene cui tutti dovrebbero tendere?

Nell’Etica Nicomachea, Aristotele scrive che la felicità è il bene in sé, non un bene strumentale, ma “ciò in vista di cui si fa tutto il resto (ciò che è principio e causa di ogni altro bene)”. In altri termini, la felicità per Aristotele è il télos, lo scopo, in particolare, il télos della politica. Anzi, come scrive più avanti, “siamo tutti d’accordo nel definire la felicità il bene supremo”. Pertanto occorre capire che cosa sia la felicità e, per capirlo, occorre “trovare quale sia la funzione propria ed esclusiva dell’uomo, quella che lo differenzia da tutti gli altri viventi: allora, escludendo la vita vegetativa, comune alle piante, e quella governata dai sensi, comune agli animali, resta la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto obbediente alla ragione, mentre l’altra lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa)”. Dunque, per Aristotele il pensiero è “la parte razionale dell’anima che possiede la ragione”, ovvero il pensiero filosofico, quello basato sui principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso, mentre tutto ciò che non rientra nelle categorie del conoscibile è escluso, anzi, disturba. Inoltre, c’è una parte razionale che però obbedisce alla ragione, anziché averne padronanza. E qui si ripropone, ancora una volta, la dicotomia platonica tra padronanza e possessione, dove la padronanza è sempre riservata al filosofo, che sa qual è il bene e che lo vuole, perché, come diceva Socrate, soltanto l’ignorante potrebbe volere il male.

Ma siamo sicuri che esista questa volontà di bene che accomunerebbe gli umani? Quanti sono coloro che, invece, sembrano allontanare, anziché perseguire, ciò che si prefigurano come felicità? E perché ciò dovrebbe accadere, se la felicità “è la cosa più buona, la più bella e la più piacevole”?

Nella logica aristotelica, la felicità, il piacere, il bene supremo sono entità pre-esistenti, che si tratterebbe di ottenere, di raggiungere, di conquistare, cose a cui approdare. La cifrematica, invece, constata che il piacere e la felicità sono due modi dell’“approdo” alla qualità della vita, rispettivamente, l’approdo nel linguaggio e l’approdo nella sembianza. Per cui, non c’è l’approdo alla felicità, ma la felicità come approdo. Ecco perché non può essere posta a principio, non può essere principio e causa di ogni altro bene, “ciò in vista di cui si fa tutto il resto”, come diceva Aristotele. E che cosa comporta mettere la felicità o il piacere a principio? Comporta vivere secondo il principio di piacere che, come scrive Sigmund Freud nel saggio Oltre il principio di piacere, vuol dire vivere secondo il principio di morte. Ciò che Freud afferma del piacere posto a principio potremmo dirlo della felicità: nella sua esperienza analitica e clinica, egli constata la coazione a ripetere, una forza che definisce quasi demoniaca, che si oppone alla realizzazione del piacere ideale, della felicità ideale. Realizzazione che, se fosse possibile, coinciderebbe con la morte. E il fine, il télos, diverrebbe la fine.

Ma la felicità ideale è un fantasma di padronanza, quindi, non c’è chi possa realizzarlo, chi possa agirlo. Eppure, quante tragedie scaturiscono dall’arbitrio dell’idea, dal “mettersi in testa” qualcosa? E basta un’idea qualsiasi – per esempio: “Qui non sto bene, non sono felice”; “Questo lavoro/questa donna/questo paese non fa per me”; “Potrei avere ben altro successo, se fossi valorizzato di più” – per smarrire la direzione, per abbattersi e per abbandonarsi, con il pretesto che la felicità “è il bene supremo”. Allora, la felicità sarebbe riservata a chi segue il principio di determinazione, a chi è “ben determinato”, a chi sa ciò che vuole e lo realizza. Ovvero, va dritto verso la cosa che si è messo in testa, verso la realizzazione della propria idea, senza parlare e senza confrontarsi, nella sordità e nella cecità verso ciò che interviene d’imprevisto, d’inimmaginabile e d’impensabile lungo il viaggio. Instaurando dispositivi della parola, il fantasma di padronanza si dissipa e al suo posto resta il fantasma come operatore, idea che opera alla riuscita della ricerca e dell’impresa. Resta il fantasma nella sua indistruttibilità, nella sua non appartenenza a un soggetto, e nella sua costanza, nella sua insistenza in direzione del valore assoluto, anziché in direzione di ciò che viene scambiato per una meta. Questa meta in realtà è la realizzazione dell’androgino (nel due che diviene uno),dell’amore totale senza la parola, quell’amore che contempla la kenosi, lo svuotamento dell’amante per “riempirsi” dell’amato fino a divenire dáimon e poi dissolversi in un puro nulla.

Parafrasando Freud, troviamo che chi insegue il piacere come principio insegue la morte, l’annullamento delle eccitazioni e il ritorno a uno stato inanimato della materia, prima che
intervenisse la vita. Per quanto possiamo considerare gnostica questa teoria, ciò che risulta dalla lettura del saggio di Freud è che non c’è più la volontà di bene, non c’è più la volontà dell’Altro. Non c’è più il principio di piacere come principio di morte.

Il bene cui è collegata la felicità, l’eudaimonia secondo Aristotele, è il principio di morte, è il principio di uguale, il principio di uguaglianza per cui “uno vale uno” e la felicità sta nel “fare uno”, nell’androgino.

Così, nelle aziende, nelle scuole, nelle famiglie, c’è chi prende il disagio, che è strutturale e intoglibile, per malessere, dimenticando che lo stesso malessere è una parola: chi “sta male” prima di tutto sta dicendo di stare male. Ma il suo stare male non gli impedisce di pensare, di parlare, di trarre gioia e profitto dall’umorismo, dal motto di spirito, dal riso (dalla metafora, dalla metonimia, dalla catacresi). E, inoltre, a chi sta dicendo di stare male? A chi sta parlando? Con chi sta tentando d’instaurare il dialogo, la forma migliore di condivisione del pathos? A chi sta lanciando l’esca della malattia come arma di seduzione? Allora, nell’incontro, occorre divenire interlocutori, instaurare il dispositivo della parola, anziché il dialogo, provocare il racconto libero, senza significazione. È questo ciò che importa nel brainworking: cogliere gli elementi linguistici di scrittura dell’esperienza, anziché abboccare nel realismo della significazione. Per esempio, se qualcuno crede che occorra fare qualcosa secondo la volontà di qualcun altro, è perché attribuisce una significazione a ciò che questi enuncia. Ma, in questo modo, delega l’autorità, la responsabilità e anche il profitto, perché non giunge alla conclusione: gira in tondo, si arrovella per capire, per esempio, quale sia la presunta volontà dell’Altro. L’occorrenza, invece, dipende dalle cose che si fanno lungo il progetto e il programma di vita, lungo il viaggio intellettuale che procede dall’apertura, per integrazione, in direzione della qualità, della cifra, del valore assoluto, non in una direzione decisa da qualcuno, frutto di una presunta scelta personale o soggettiva. E le cose s’intendono facendo, non sono stabilite prima, non rispondono a una linea guida e non sono conformi a un protocollo o a uno standard. Nulla accade, nulla si fa, nulla si produce, nulla riesce, senza il dispositivo della parola, che è il cervello stesso del viaggio. Senza il dispositivo della parola, regna la paura e ognuno è “preso” dalle proprie idee, dall’idea di sé, dall’idea dell’Altro, dall’idea del tempo e dall’idea di morte.

La felicità come approdo al valore assoluto esige il cervello, la bussola che non si può perdere, perché non è vincolata ad alcuna soggettività. Il cervello, la bussola è il dispositivo della parola,con la sua libertà, la sua anoressia, la sua tentazione intellettuale. E noi non abbiamo da pagare alcun riscatto per raggiungere la felicità, non abbiamo da liberarci dalla vita come stato di pena, gravato dalla malattia mortale o dalla malattia di morte. Al principio di determinazione di chi crede che volere sia potere, quindi che la felicità occorra volerla, che occorra essere “creativi” e “positivi”, artefici del proprio destino, spesso risponde il principio d’indeterminazione di chi mette davanti il negativo, la “decreazione”. Ma il cervello della felicità è il cervello della vita come viaggio di arte e invenzione, il viaggio che ciascuno compie senza pensarci, senza sapere, volere, dovere, potere dire, fare, scrivere. Parlando, facendo, scrivendo, ecco la felicità, inaspettata, nell’istante in cui una goccia gioca con un granello di sabbia e disegna ghirigori infiniti.