VIVERE SENZA FAR FINTA DI VIVERE

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filosofo e docente emerito di Dottrina dello Stato all’Università di Bologna

La filosofia non gode di buona fama. A proposito di vecchiaia, un noto proverbio latino che viene usato ancora oggi è: primum vivere deinde philosophare, ossia “prima vivere, poi filosofare”, dove “filosofare” allude al fare delle chiacchiere. Prima bisogna vivere. Ma cosa significa vivere? Essere venuti al mondo è di per sé un valore? Seneca, un grande filosofo dell’antichità, disse: “Non è un bene vivere, ma vivere bene”. La prima domanda a cui nessuno può sfuggire è “Vale la pena vivere per il solo fatto di esistere?”, oppure la vita è qualcosa che va vissuta con un giudizio, con una valutazione? L’importante è vivere bene. Io non darei per scontato che il vivere di per sé sia un valore, però, da storico della filosofia, so che c’è tanta parte della cultura, per esempio quella cattolica, che ritiene che vivere sia già in sé un grande bene, perché vivere è un dono di Dio. Vorrei discuterne un po’, non perché io abbia ragione e gli altri abbiano torto, ma perché in una società civile si cresce confrontando le diverse opinioni.

Io ho sempre condiviso un po’ di più quella frase di Seneca che dice: “Non abbiamo nessun merito nell’essere venuti al mondo, non dipende da noi, è tutto accaduto senza il nostro intervento”. Quindi, perché accanirsi nel dire che il problema è vivere? Il problema è vivere bene. C’è tanta gente che dice che per vivere bene basta la salute. In latino salus non vuol dire salute, vuol dire salvezza. E nel Medioevo la salute era andare in paradiso dopo la morte, quindi extra ecclesiam nulla salus, “fuori dalla chiesa non c’è salute”, nel senso di salvezza. Il concetto di salute nella cultura medievale era quello di salvare l’anima dopo la morte. Questo era lo scopo della vita. Io non dico che questo sia vero o falso, ma è un’idea con la quale mi devo confrontare se lo scopo della mia vita è andare nell’aldilà.

Nella storia della filosofia, tra le tante risposte che sono state date alla domanda “Cosa vuol dire vivere bene?”, c’è una formulazione di Aristotele, magari un po’ classica e datata, che indica il vivere bene con la parola greca eudaimonìa. Ogni traduzione italiana non rende il significato di questa parola. Il dàimon è una sorta di voce interiore, cioè è quello che oggi chiameremmo l’autocoscienza: che cosa penso di me stesso, qual è il giudizio sul mio operato, come mi valuto. Questo è il dàimon. Invece, eu, che vuol dire “bene”, è un’armonia, vuol dire avere un senso di sé soddisfatto. Si vive bene quando, rispetto a quello che uno pensa, immagina, desidera, si impegna a fare, tira un consuntivo e dice: “Io mi sento bene, sto bene, nel senso che faccio quello che occorre, ho degli obiettivi da raggiungere, però mi rendo conto che non devo desiderare troppo perché il troppo non sta nelle mie possibilità”. Da questa riflessione emerge che l’unica traduzione possibile è il lessema “felicità”, anche se “felicità”, nella lingua italiana è un termine pieno di ambiguità, perché confondere la felicità con un momento umorale è un errore. La felicità, quanto meno, deve avere una costante di giudizio e diventa costante se io ho preso le misure della vita. Tutti noi vorremmo essere di più, le nostre aspirazioni sono sempre tarate su qualcosa che va al di là delle nostre possibilità, quindi l’irrequietezza interiore è la constatazione di questo gap costante. Qual è, quindi, il rimedio aristotelico? È trovare una compatibilità tra ciò che uno desidera, tra ciò a cui uno aspira e le sue possibilità reali.

La nostra società rimuove la morte. Se io ho ottant’anni, i miei ottant’anni vissuti li ho consumati. O devo farmi le plastiche facciali, tingermi i capelli, far finta di non avere ottant’anni? Se uno comincia a fare finta, vuol dire che nella sua vita non ha fatto i conti con il principio di realtà. Una persona equilibrata è una persona che ha messo nel conto che non accade nulla di imponderabile. Possiamo anche arrivare all’eccesso di alcuni filosofi stoici: Epitteto era un filosofo romano, per di più schiavo, che giunge a dire che le cose che accadono o dipendono da noi o non dipendono da noi. Poi, comincia a fare l’elenco: non dipendono da noi la ricchezza o la salute, mentre dipendono da noi i nostri stati d’animo. E sostiene che sarebbe veramente una miseria rinunciare a quella parte che dipende da noi, subendola come conseguenza di ciò che non dipende da noi: io mi deprimo perché scopro che devo morire. Ma, se dobbiamo morire e se morire non dipende da noi, va messo nell’ordine delle cose possibili.

Vivere bene è un’operazione che non spetta soltanto ai geriatri, dai quali abbiamo molto da imparare, ma è qualcosa che spetta a tutti. Che la vita sia un bene in sé, in assoluto, da difendere a tutti i costi, è un concetto un po’ moderno e anche un po’ consumistico. Seneca diceva: “Nessuno ha il diritto di lamentare che la vita è dura e cattiva, perché una è la strada con cui siamo venuti al mondo e infinite sono le vie di uscita che abbiamo davanti”. Finché si vive si vive, però siamo pronti a uscire dalla vita quando la realtà ce lo chiede. O vogliamo rimuovere questa realtà?

Se Hitler avesse pensato che la morte è un fatto col quale convivere, non avrebbe mai immaginato che la morte di sei milioni di ebrei avrebbe significato il suo trionfo. Può pensare una follia come questa soltanto chi non ha fatto i conti su che cosa vuol dire vivere e morire. Noi dobbiamo mettere nel conto la possibilità che l’invecchiamento è quasi un regalo della natura del mondo, è una fortuna. In modo scherzoso, ho detto che mi piace il francese perché non dice “ottant’anni” ma dice “quatre-vingts”. Io ho da poco compiuto “quattro volte vent’anni”. E oggi io continuo a fare quello che facevo prima, i corsi. Avendo una pensione dello Stato, li tengo anche gratuitamente, perché guadagnare soldi non è lo scopo della vita. I soldi fini a se stessi sono una malattia. Il denaro, dice Spinoza, grande filosofo del Seicento, è una delle più grandi invenzioni della storia perché compendia dentro di sé, nella moneta, il desiderabile. Però, l’attaccamento avaro al mondo e alle cose è una patologia.

Nel periodo del Covid, dovendo restare un po’ più di tempo al chiuso, ho fatto un lavoro sulla Divina Commedia. Ho letto verso per verso Dante e ho cercato di tradurlo nella lingua italiana di oggi con un’operazione che per i dantisti è inutile, perché non hanno bisogno di leggere il mio libro, ma per il 99% della gente è uno strumento che aiuta a leggere Dante. Il mio libro è un’introduzione, non può sostituirsi a Dante. Io mi rendo conto che ho ammazzato la poesia di Dante, che però scrive in un italiano arcaico di settecento anni fa, con dei termini difficili, in forma poetica, con le rime: nessuno lo legge e, se qualcuno lo legge, non lo capisce. Allora, io mi sono messo a lavorare su questo testo, ho passato un anno e mezzo di isolamento ed è stato per me il periodo più bello della mia vita, mi sono immerso nel mondo dantesco, ho scoperto cose straordinarie, parlavo direttamente con Dante restando seduto a casa. È un’esperienza bellissima. Allora, perché devo andare a dire che grazie al Covid si vive male? Che si tratti di vivere al chiuso o all’aperto, di vivere da giovani o come anziani, il problema è vivere, dare un senso alle cose che facciamo.

Molta letteratura sulla vecchiaia è consolatoria. La vecchiaia è la vecchiaia, ha i suoi guai, ha i suoi mali a cui ti devi adattare. Il modo di vivere a lungo è continuare a vivere senza stare a far finta di vivere. Uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi, il francese Michel de Montaigne, che è stato anche sindaco di Bordeaux, a un certo momento cominciò ad avvertire i sintomi della vecchiaia, che all’epoca erano un po’ precoci. Aveva dei disturbi fastidiosi al fegato e alla cistifellea, “il mal della pietra”. Lui aveva ereditato una proprietà, allora pensò di smettere di lavorare e di ritirarsi in un castello, nella sua bella casa, e di stare lì a leggere i libri come sognavano gli antichi. L’otium. Però, prima di fare questa scelta, decise di percorrere l’Italia, la Cecoslovacchia, tutta l’Europa alla ricerca delle acque termali, fermandosi anche a Porretta per curare i suoi mali. Montaigne era convinto che il mal della pietra si curasse con le acque: le ha provate, sperimentate, ma intanto ha viaggiato e ha scritto. Poi, quando è tornato a casa sua, ha deciso di chiudersi nella sua stanza e scrivere sulle pareti tutte le frasi celebri dei più grandi filosofi, mettendosi a parlare con loro. Si è rassegnato al fatto che davanti alla vecchiaia vera avesse una sola possibilità: dialogare con gli antichi come faceva Machiavelli, la sera, dopo tutti i guai della politica. Io, la sera, quando vado in casa, apro un libro e mi metto a leggere Giuseppe Faggin, il padre di Federico, l’inventore dei transistor. Giuseppe Faggin era un professore di filosofia veneto, morto a 96 anni, cattolico e molto interessante. Poco prima di morire pubblicò una nuova traduzione in lingua italiana di uno dei libri di filosofia più difficili della storia del pensiero, Le Enneadi di Plotino, filosofo greco vissuto nel terzo secolo dopo Cristo. E quando presentò il libro, un malcapitato giornalista gli chiese: “Scusi, professore, ma come ha fatto a tradurre Plotino, lei che è cieco?” E lui rispose: “Ma io non ho mica bisogno di vederlo, parlo con lui direttamente, da una vita”. E lo ha detto con sincerità, perché sapeva il testo a memoria, avendolo già tradotto un’altra volta, e si è voluto cimentare di nuovo con questo obiettivo. Pertanto, nella vita non sottovalutate la portata dello statuto intellettuale.

Gianni Celati è un importante scrittore bolognese, più noto in Inghilterra che in Italia, perché è vissuto a Londra. Dopo aver scritto opere di una bellezza assoluta, come Quattro novelle sulle apparenze, ha trascorso gli ultimi sei anni della sua vita a tradurre l’Ulisse di James Joyce dall’inglese all’italiano. Dopo sei anni di lavoro durissimo, a chi gli ha chiesto che bisogno c’era di riproporre Joyce, che era già stato tradotto egregiamente da Giulio De Angelis e da altri, lui ha risposto che era una vita che parlava con Joyce e che voleva dare una sua interpretazione: “Secondo me – disse – Joyce non è un narratore, è un musicista”. E compie una traduzione dell’Ulisse di Joyce che è musica, un’opera bellissima, che però un filologo non potrebbe apprezzare. “Ha perso tempo”, mi diceva un professore di Bologna, “ci sono già delle traduzioni migliori”. Ma che importa? Certo, ci sono interpretazioni di Dante migliori della mia, ma ciascuno, nel suo operare, prende delle decisioni con il senso di realtà che lo concerne.

Vivendo, troviamo l’eudaimonia di cui parla Aristotele, non se rimuoviamo i problemi o ci creiamo delle visioni, delle allucinazioni, dei sogni, ma se troviamo un equilibrio tra la realtà, che è molto più forte di noi, e il cercare di svolgerla bene, di vivere bene.