CIFRATICA DELL’ETÀ

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psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

L’età, non solo quella tarda, sembra essere un problema per molti. Chi si lamenta di essere limitato perché “non ha l’età”, chi rimpiange che “alla mia età, è troppo tardi per fare quel che vorrei”. Da dove nasce questa maledizione dell’età, che non va mai bene? La questione dell’età incomincia con la questione di Edipo, segnatamente con l’enigma della Sfinge: “Qual è l’animale che prima ha quattro piedi, poi due, poi tre?”. Edipo risponde: “L’uomo”. Sembra una risposta intelligente, la Sfinge precipita. In realtà, Edipo accetta il postulato della Sfinge (guarda caso, per metà umana e per l’altra metà animale) secondo cui l’uomo è un animale e, in quanto animale, è definito dalle età: bambino, giovane, vecchio. Nella credenza della vita come metamorfosi, avanzata anche dallo psichiatra Vittorino Andreoli, nel libro Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio) (Solferino), l’età serve all’ordinalità e all’ordinarietà degli umani, vale alla tassonomia (fino alla terza età, alla quarta età) e alla definizione del tempo secondo la durata: il tempo diviene una linea, che viene divisa in varie parti, le età.

Secondo la Sfinge, ogni età è caratterizzata dai suoi segni: quattro piedi, due piedi, e infine tre piedi, contando il bastone, che vale a significare il vecchio: bastone in latino si dice baculum, poi bacillum, cosi l’uomo con il bastone si dice “imbecille”. E attraverso la semiologia si scrutano i segni del corpo e della scena: le rughe, le palpebre cadenti, la canizie dovrebbero consentire un’osservazione dell’età, la sua visualizzazione. Fino ai test, per poter dare un nome alla malattia. È la diagnosi, in cui non occorre nessun ascolto: l’età e i suoi segni parlano da soli. “È l’età”. E, a partire dall’osservazione, c’è subito una farmaceutica, spesso inutile, se non dannosa, come ha documentato il neurologo Ferdinando Schiavo, nel suo libro Malati per forza (Maggioli).

Ma, soprattutto, a ogni età è richiesta la rassegnazione: “Sei piccolo, devi aspettare”; “Sei vecchio, cosa pretendi?” Cosa importano le tue istanze? Cosa importa la tua ricerca, la tua intrapresa? Se il tempo è una linea tagliata in varie parti, che l’idea di metamorfosi chiama fasi, questo tempo canonico vale da letto di Procuste e, secondo il consiglio di tanti sapienti, ognuno deve stare nella sua parte, accettare le proprie limitazioni, in una logica sacrificale. “Devi accontentarti”: l’età come durata è la negazione del narcisismo, ridotto a idea di sé, a adeguamento alla propria identità. Altra cosa il narcisismo come proprietà del viaggio, tra differenza e variazione.

Il comandamento della Sfinge è che ciascuno resti al suo posto, resti se stesso, sia identico a sé. Questo l’edipismo, il campo in cui ciascuno deve concentrarsi, confinarsi.

Dall’ideologia della Sfinge si giunge alla filosofia di Aristotele, al principio d’identità (e per Aristotele l’identità dell’uomo è essere animale, animale sociale), fino al concentramento. Ciascuno deve restare al suo posto, deve essere se stesso, conoscere se stesso, ben concentrato, ben sottoposto all’idea di sé. “Lui non è più lui”, magari a causa del cosiddetto morbo di Alzheimer. “Non è più lui” diventa la maledizione: come se ciascuno dovesse essere l’uomo o la donna sempre identici a sé, come se non esistesse il tempo, tranne che come durata, come fasi in cui accomodarsi, finché non finisce.

Eppure, il lessema “senior”, più vecchio, viene da senex, che non allude alla fine: ha la sua radice nel sanscrito sanȃ, cioè sempre, e sanag’, eterno. Il tempo non finisce, facendo, il tempo si trova. Facendo, ecco il gerundio della vita, senza partire dall’idea di fine. Facendo, l’infinito e l’eternità del tempo. E “anziano” deriva da ante, davanti, è chi è avanti, ma avanti con l’età, non davanti alla morte: per chi parla, fa, scrive, davanti c’è l’avvenire, non la morte, non la vecchiaia come malattia, come malattia mortale.

La linea per bambini? La moda per i giovani? I prodotti per gli anziani? C’è chi passa la vita tentando di mantenersi giovane, e intanto non vive. Così prospera la silver economy, un business planetario, talora in nome del benessere. Non serve a nulla scandalizzarsi per i profitti che genera questa industria costituita da forniture di servizi più che di beni: importa se questi servizi sono in direzione della vita, dell’avvenire o soltanto viatici per la morte, per la buona morte, se rispondono all’ideologia dell’eutanasia. Occorrono servizi intellettuali, non palliativi in attesa della fine.

I servizi intellettuali scommettono sulla parola, sulle sue arti e sulle sue invenzioni, sui dispositivi nutrizionali, organizzativi, di scrittura, sulla ginnastica intellettuale, sulla combinazione tra gioco e lavoro, sul fare e sul tempo che non finisce. L’età sarebbe il segno che il tempo finisce, che stiamo arrivando alla fine? L’età senza la fine del tempo è l’età della parola. E chi può dire o misurare qual è l’età della parola e del fare? L’età è età linguistica, età del viaggio.

Seniores, sanȃ, sempre: l’età è contraddistinta dalla costanza, non dall’identità, che è la premessa universale del sillogismo aristotelico: “Tutti gli umani sono mortali”.

L’età della parola è una fase che non finisce, per questo non consente la metamorfosi. Nell’itinerario secondo la procedura per integrazione, ci sono tante fasi, tanti incontri, tanti interlocutori, ma nessuna fase finisce e le fasi non si susseguono. La fase è costante, l’età è costante. Da cui il teorema della costanza: “Non c’è più l’animalizzazione degli umani, non c’è più metamorfosi”. Allora, ciascuna età è l’età della vita e ciascuna età offre l’occasione dell’accettazione della vita.

E l’accettazione della vita è questo: non c’è l’idea di sé, non c’è un’idealità della vita, una vita ideale cui sottomettersi. Con l’età della parola, non c’è più la dicotomia vecchio-giovane, così finemente analizzata nel romanzo di Pirandello I vecchi e i giovani: nessuno è soggetto all’età perché l’età è della parola, non del soggetto.