IL MODO NON È MAI L’UNICO MODO

Immagine: 
Qualifiche dell'autore: 
presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO), di ALPI e di EUROLAB

Il modo della parola (titolo di questo numero della rivista) è ciò che lei come imprenditore ha sempre instaurato nell’attività di TEC Eurolab fin dalla sua fondazione nel 1990. Non a caso il 6 dicembre scorso avete ricevuto il rating come Welfare Champion per l’edizione 2022 di Welfare Index PMI, assegnato a 100 aziende (su 6500 partecipanti) con una struttura di “welfare aziendale caratterizzata da un livello di iniziativa molto rilevante, per ampiezza e intensità, capacità gestionali e impegno economicoorganizzativo elevati (proattività, orientamento all’innovazione sociale, costante coinvolgimento dei lavoratori) e impatti sociali significativi sulla comunità interna ed esterna all’impresa”…

Tenderei a separare le due cose, anche se, in effetti, l’una è in qualche modo collegata all’altra, ovvero l’attenzione per il welfare non può che derivare da una certa idea di impresa e di gestione d’impresa. Il welfare aziendale non è che uno dei temi afferenti alla gestione d’impresa e ai diversi modi nei quali può essere condotta. Il premio ricevuto da Welfare Index PMI ci ha fatto piacere ed era del tutto inatteso, non ne avevamo alcun sentore, anche perché non è nostra consuetudine comunicare attraverso i media le iniziative di welfare riservate ai nostri collaboratori e al territorio, insomma non utilizziamo il welfare a scopo di marketing. In generale ritengo la questione del welfare alquanto delicata perché, se da un lato sottolinea il contributo che le imprese possono dare alla comunità, ne evidenzia cioè l’impegno in attività di carattere sociale non strettamente collegate alla propria missione, dall’altro, mette in luce le carenze dell’offerta di welfare da parte dello Stato, soprattutto a supporto delle famiglie. Occorre inoltre fare attenzione a non identificare la gestione di un’impresa con il suo welfare, cioè il welfare non ci dice molto sulle modalità organizzative, gestionali, di un’impresa. Ho conosciuto aziende molto virtuose per quanto attiene al welfare, ma altrettanto rigide nell’organizzazione, fedeli a una gestione gerarchica dove risulta difficile per il collaboratore, che in questo caso è definibile unicamente con il termine dipendente, esprimere in pieno i suoi talenti. E ho conosciuto anche il contrario di questo. Quindi, tornando alla sua introduzione sul modo della parola, che diviene poi modo dell’azione e quindi modo del fare, non c’è un solo modo di fare le cose, non c’è un solo modo di fare impresa, di creare valore e di distribuire valore.

Ma è indubbio che ciascun modo è riconducibile all’idea che l’imprenditore ha non soltanto della sua impresa, ma della società nel suo complesso. Procediamo quindi per gradi. Io penso che la società dovrebbe funzionare secondo determinati principi e, per inciso, quelli dichiarati nella Costituzione Italiana sono un ottimo riferimento. Se la società deve avere determinate caratteristiche, allora le imprese che producono il lavoro, considerato dai padri costituenti talmente importante da essere inserito nel primo articolo della Costituzione, devono essere organizzate in modo tale da rispettare anche gli articoli 35, 36 e 37 della Costituzione e trarre il massimo vantaggio possibile da quanto previsto nell’articolo 46 della medesima: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Questo articolo ci indica un modo, o forse il modo, di organizzare le imprese; ci invita a un’idea, in un certo senso, olocratica dell’organizzazione dell’impresa. Un’organizzazione aperta all’ascolto di ciascun suo componente, dove la competenza specifica possa essere valorizzata. Sono le persone che danno vita ai processi, sono le persone che hanno diretto accesso alle informazioni che giungono dai processi, sono le persone le protagoniste di ogni scambio relazionale che avviene all’interno dell’impresa e tra l’impresa e i suoi portatori d’interesse: clienti, fornitori, pubblica amministrazione, cittadini, enti, ecc. Le persone sono i migliori sensori che abbiamo all’interno dell’azienda, sarebbe sciocco non metterle nelle condizioni di potere collaborare alla conduzione dell’azienda; ma come si può esplicare questa collaborazione? Torniamo all’incipit del discorso, non c’è un solo modo, ce ne sono tanti e coinvolgono tanto le competenze specifiche quanto quelle relazionali. Non sempre tutto funziona come dovrebbe, possono esserci anomalie tecniche, ad esempio un’apparecchiatura che ha perso il settaggio o un’infrastruttura difettosa, ma anche difficoltà relazionali, un dissidio tra persone, un’incomprensione che genera difficoltà nella trasmissione di informazioni, situazioni che quindi rendono meno efficienti i processi e l’azienda in generale. Queste situazioni possono essere fronteggiate in tanti modi diversi, nell’azienda a gestione gerarchica basata su regole e mansioni, probabilmente, la prima valutazione che farà il dipendente sarà: “Dipende da me, è nelle mie mansioni? Mi riguarda? Cioè, quando se ne accorgono, ci vado di mezzo? No?! E allora meglio girarsi dall’altra parte”. Ben diversa la reazione di un collaboratore che trova identificazione nell’azienda e intende l’importanza del proprio ruolo, qualunque esso sia, che ha a cuore il buon esito del proprio lavoro e dell’impresa, in quanto capisce che il suo collaborare, il suo fare bene contribuisce alla qualità della vita, non soltanto propria, ma anche dell’azienda e del paese. E questo si avvicina all’idea di impresa senza dipendenti, ovvero senza che le relazioni interne siano regolamentate attraverso una rigida applicazione del potere gerarchico e quindi da una totale dipendenza dal proprio responsabile che porta le persone a fornire unicamente risposte a domande dirette, sempre cercando di pararsi, proteggersi da ogni possibile accidente e per nulla disposte ad arrischiare pareri e considerazioni che non siano esplicitamente richiesti. Se lo ricorda il becero detto: “Sei pagato per lavorare, non per pensare”? Ormai questo idioma è da tempo, mi auguro, relegato all’interno di barzellette che hanno lo scopo di ridicolizzare chi lo dice, ma quando ho iniziato a lavorare, certo molti anni fa, negli anni ottanta, me lo sono sentito ripetere più di una volta, sotto forme diverse, di cui quella che mi è rimasta maggiormente impressa è: “Finché ci sono me, si fa così”, che ottenni come risposta alla richiesta di chiarimento intorno a una fase di un processo produttivo. Oggi, e sempre più nel futuro, il ragionamento deve essere ribaltato: “Pensa mentre fai, analizza l’esito del tuo lavoro, fornisci riscontro, comunica le deviazioni del processo, proponi soluzioni, ecc.”. Occorre cioè coinvolgimento, partecipazione attiva da parte delle persone e questa partecipazione attiva non è possibile, o quantomeno è difficile, se non riusciamo a dare un senso al nostro e al loro lavoro. Dobbiamo riuscire ad andare oltre alla produzione del servizio o del prodotto fine a se stesso, dobbiamo far comprendere come attraverso il lavoro non solo trasformiamo la materia, ma trasformiamo anche noi stessi, apprendiamo nuove competenze, costruiamo relazioni, creiamo opportunità per noi e per gli altri, contribuiamo a creare valore tangibile e intangibile, che viene poi distribuito, contribuiamo quindi alla coesione sociale, e anche grazie al nostro lavoro, se ben fatto, se ci mettiamo il nostro sapere, la nostra attenzione e passione, anche grazie a noi, il mondo sarà un po’ migliore. Occorre ridare al lavoro un senso, laddove l’ha perduto, dobbiamo avere il coraggio di riportare la vita nel lavoro, perché, come ci ricorda il filosofo Alberto Peretti: “È vero che nella vita c’è tanto altro oltre il lavoro, ma non c’è alcuna ragione perché il lavoro non sia pieno di vita”. Non c’è un solo modo per ridare un senso di piena vita al lavoro, ma certamente occorre prestare attenzione a quelle cose, a quelle relazioni che nella vita ci fanno stare bene. Quindi, attenzione alla sicurezza sul luogo di lavoro, all’ambiente del lavoro, alle relazioni sul lavoro, alla comprensione del proprio ruolo oltre la singola fase del processo produttivo, a cosa contribuisco, a come il lavoro mi trasforma, a come fa evolvere il mio capitale intellettuale.

Ci sono tanti altri temi che non abbiamo toccato, dalle retribuzioni alla parità di genere, alla necessità di formazione, ecc. I temi attinenti alla gestione d’impresa, i temi attinenti al lavoro sono talmente tanti che risulta impossibile scinderli dai temi della vita e quindi che senso ha, potremmo dire che senso ha avuto, nei secoli, separare la vita dal lavoro? Dobbiamo ricondurre la vita all’interno del lavoro, ridare senso al lavoro, trovare, o ritrovare, per chi l’avesse perduto, l’orgoglio di contribuire alla costruzione della società attraverso il lavoro, cosa che conferisce senso etico al nostro operare vivendo.

In questa direzione, è importante lo sforzo che avete sempre compiuto per instaurare dispositivi della parola in azienda. È una questione intellettuale quella di trovare il modo perché la qualità della vita non sia un optional, ma un’istanza che investa ciascuno, nel lavoro, così come nella scuola e nella famiglia…

Esatto, premesso che anche da parte nostra c’è tantissimo da fare, da migliorare, in tutti i campi, bisogna trovare il modo perché ci sia funzione e variazione, perché il modo non è mai l’unico modo e non può essere lo stesso modo tutte le volte. Vivendo, occorre trovare, ciascuna volta, il modo più idoneo e, per chi ha funzioni di direzione dell’impresa, questa idoneità comporta la necessità di creare valore per il mercato e, simultaneamente, di creare e distribuire valore sia economico e finanziario sia intellettuale, per se stessi, per i propri collaboratori e per la società.