DI UN ENTUSIASMO SENZA L’IDEA DI CONOSCENZA

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psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

In ogni tempo i saggissimi hanno giudicato la vita allo stesso modo: essa non vale niente… Sempre e ovunque si è udito dalla loro bocca lo stesso accento – un accento pieno di dubbi, di melanconia, di stanchezza della vita, un accento pieno di opposizione alla vita”. Così scrive nel 1888 Friedrich Nietzsche nel libro Crepuscolo degli idoli. E prosegue annotando che è impossibile, per chi vive, giudicare la vita. La vita vale, la vita non vale? E cosa vale? Vale la pena, la fatica, la candela? In effetti, come potere pensare, giudicare, valutare la vita senza farne una rappresentazione o un’idea, senza assoggettarla all’arbitrio dell’idea, cioè limitarla, appiattirla, sottoporla al pregiudizio?

La vita potrebbe essere giudicata solo partendo dalla vita ideale, per cui la vita sarebbe annullata dall’idea della vita, anzi la vita verrebbe guidata dall’idea del nulla. L’idea della vita è l’idea della cosa: idea dell’oggetto e della causa, del tempo e dell’Altro. “Questa è la cosa, la cosa che conta, la cosa che vale, la cosa in sé e per sé”. Vi è chi si dà pena nel tentativo di stabilire l’oggettività o di fissare la causalità, di gestire il tempo o di controllare l’Altro? Questa idea della cosa trae la vita nell’alternativa tra bene e male, che diventa alternativa alla vita, sorretta dall’idea di morte. L’idea della vita è l’idea della morte, e la paura della morte è la paura della vita.

La cifrematica, la scienza della parola, constata che chi parte dall’idea della cosa confronta la vita con il suo spettro, costruisce una realtà spettrale, una realtà basata sul giudizio di sé e sul proprio ghénos familiare e sociale. Tolti, idealmente, l’oggetto e la causa, il tempo e l’Altro, accade che il dire, il fare, lo scrivere vengano sottoposti al detto, al fatto, allo scritto di riferimento, al riferimento ideale. E quale miglior riferimento di quello dell’idea del proprio ghénos ideale e sociale? Quale canone morale migliore della famiglia presunta d’origine, che è la famiglia ideale, rispetto a cui la propria famiglia, la famiglia storica, diventa positiva o negativa, redenta o dannata? L’idea di alternativa, per esempio rispetto alla propria famiglia, alla propria ricerca, alla propria impresa è debitrice dell’idea della cosa, del giudizio morale su di essa dettato dall’ideologia familiare e sociale, dunque dall’idea di origine o iniziale.

La realtà spettrale, tentando di sostituirsi alla realtà della cosa, all’oggetto e alla causa, al tempo e all’Altro, tenta di eliminarli: è la realtà della morte. Questo ghénos ideale che nutre la realtà spettrale, questa idea di famiglia di origine o iniziale dovrebbe negare la famiglia come mito e come traccia, da cui procede il dispositivo del gerundio della vita. Della famiglia non abbiamo idea, per questo è mito e traccia. In questa famiglia come modo dell’apertura, famiglia che è impossibile qualificare ristretta o allargata, tradizionale o alternativa, non c’è conoscenza, tanto meno del bene e del male. La famiglia in cui c’è conoscenza è tragica, toglie qualsiasi occasione di dispositivo tra i familiari. Solo in assenza di conoscenza, nella famiglia come traccia e non come linea, non c’è una lingua unica, che si nutre della lingua dei litiganti, né il dialogo, che si nutre del conflitto. La famiglia come traccia, come apertura vanifica l’idea sulle relazioni, buone o cattive, tra i familiari, che sarebbero la causa di ogni guerra di famiglia.

L’idea di relazione doppia l’idea della cosa. Sottoposta all’idea di relazione, ogni cosa può divenire relativa, dunque essere confrontata, paragonata, parificata, omologata. Così impera l’idea di uguale. Dell’idea di uguale è tributaria la spettralità, nei suoi due aspetti, la fascinazione verso lo spettro o l’affrontamento contro lo spettro, che risentono della relazione ideale. La fascinazione e l’affrontamento spettrali, cioè dipendenti dall’idea di ghénos, dall’idea di uguale sociale e famigliare, negano l’identificazione, l’instaurazione dell’oggetto e della causa della parola, condizione intangibile e inderogabile di ciascuna esperienza. L’identificazione è virtù dell’oggetto e della causa, come l’audacia, come lo sdegno, come l’entusiasmo. Virtù dell’oggetto, non del soggetto, essa non dipende né costituisce un’identità perché non procede da un’idea di sé ma dall’apertura, dalla traccia: per questo non rientra in un sistema, non favorisce l’unione, non offre supporto alle masse e alle comunità di spirito. L’identificazione non consente l’uguaglianza, che vorrebbe negarla, fissarla, parteciparla: ma in questo modo la prova di realtà e di verità si muterebbero nella ricerca di obiettività e nella ricerca delle cause, cioè nell’obiettivismo e nel causalismo che trasformano la vita in una realtà penale e penitenziaria.

“Lo spettro è un oggetto che ritorna sul soggetto”, scrive Armando Verdiglione nel libro Il gerundio della vita. Analisi e clinica (Spirali, 2022, eBook). In nome del sé ideale, dell’idea di sé, ognuno è limitato e difettoso, si autoaccusa e si autocritica e considera ciascuna annotazione, ciascun apporto come accusa e come critica, attribuendo i suoi spettri alla realtà, che così viene annullata dalla sua soggettività, sempre mancante rispetto alla conoscenza di sé, all’idea di sé. L’identificazione non consente questa conoscenza spettrale, impedisce il ritorno dell’oggetto sul soggetto perché non conosce il suo oggetto e la sua causa, per questo non può considerarli buoni, come nell’euforia, o cattivi, come nella disforia, per questo non supporta la mania e la malinconia che la filosofia e la psichiatria, da Platone a Charcot, considerano patologie soggettive del presunto rapporto con l’oggetto. Segnatamente, il filosofo e lo psichiatra avrebbero con l’oggetto un rapporto corretto, basato sulla ragione, dettato dall’idea di bene, mentre l’artista o il folle sarebbero vittime di un rapporto scorretto, basato sulla passione, cioè sul venir meno della ragione, per delirio o per errore, dunque orientato al male. Come scriveva il filosofo Christian Thomasius nell’Introduzione alla dottrina della ragione (1691): “Come questa ragione, in quanto è l’essenza primaria dell’uomo, è indiscutibilmente un bene, così la sua privazione, che si chiama follia o delirio, o la sua diminuzione, ovvero l’idiozia, l’errore, la sragione ecc., è un male. E ciò che rafforza e conserva la ragione è bene, ciò che la indebolisce o la diminuisce è male”.

Ma, nel 1781, nella Critica della ragion pura, Immanuel Kant compie un passo ulteriore definendo come “mancato rispetto dei limiti della ragione” il fanatismo, che viene poi contrapposto all’entusiasmo: “Il primo crede di sentire una comunione immediata, straordinaria con una più alta natura, mentre il secondo indica la condizione di un animo eccitato oltre la misura conveniente, ora mediante massime della virtù patriottica, ora dell’amicizia, ora della religione, senza che vi abbia a che fare un’immaginaria comunione spirituale”. Nel primo caso si tratta di un errore conoscitivo, di una credenza, nel secondo di un’esaltazione, di un affetto, seppur riscattato da un’idea di bene, come scrive altrove: “L’idea di bene congiunta con un affetto si dice entusiasmo”. Ma, poiché per Kant l’affetto “non può meritare in alcun modo la benevolenza della ragione”, per riabilitare l’entusiasmo deve considerarlo “esteticamente”, e allora “l’entusiasmo è sublime, perché è una tensione delle forze psichiche prodotte da idee, le quali danno all’animo uno slancio di gran lunga più potente e durevole dell’impulso che deriva da rappresentazioni sensibili”.

Sospeso tra l’idea di male in Thomasius e l’idea di bene in Kant, l’entusiasmo come virtù dell’oggetto dell’identificazione viene, idealmente, cancellato. Ma con questa cancellazione l’entusiasmo viene sottoposto all’idea di possessione, secondo l’etimo enthéos, composto di en (in) e theós (dio) per cui enthousiázein sarebbe “essere posseduto dalla divinità” e relegato alla divinazione e alla mantica. Pervaso dall’entusiasmo è il poeta che declama versi nello Ione e nel Fedro di Platone, invasa dallo pnėuma enthousiastikón è la Pizia dell’Oracolo di Delfi secondo La geografia di Strabone. Risuona della parola delle Muse il poeta, viene penetrata (di qui lo sdegno morale di San Giovanni Crisostomo) dal soffio del dio la Pizia, ed entrambi resteranno il prototipo del soggetto della manìa (da màinomai, essere agitato, pazzo), mania poetica e mania femminile. Anche la Pizia, come il poeta, non detiene la conoscenza, ma anche per lei quest’ultima proviene come virtù ideale, proviene dall’idea di dio. Nel momento in cui ha a che fare con questa idealità, ha a che fare con la conoscenza, e in virtù di questa conoscenza basata sull’entusiasmo spirituale, la Pizia può divinare, in modo spettrale, l’avvenire e il divenire.

Alla possessione, che pure considera sacra perché proviene da un dio, Platone contrappone il principio di padronanza, virtù del filosofo, con la sua conoscenza razionale, a fin di bene, decretando la condanna della poesia come pericolosa e inadatta all’educazione del cittadino. Ma la conoscenza platonica non nega la mantica, ne è una variante. La cancellazione dell’entusiasmo lo relega nelle dottrine misteriche, con il loro tentativo di padroneggiare la mania, il furore, il fanatismo (che deriva da fanum, tempio, e che Cicerone usa per primo per indicare coloro che “avevano la pretesa di parlare in nome di Dio”). Chi più del fanatico accampa una corretta idea dell’oggetto e della causa? Chi più del fanatico tenta il monopolio dell’entusiasmo chiamandolo fanatismo altrui? L’accusa di possessione, di mania, di fanatismo, ovvero l’esorcismo dell’entusiasmo è una modalità spettrale, un’attribuzione dei propri spettri all’Altro. Nell’accusa di fanatismo, l’entusiasmo acquisirebbe un accento religioso, fideistico. Ma l’entusiasmo non è un prodotto della fede, la fede trova la sua condizione nell’entusiasmo: la fede è l’idea impossibile dell’oggetto e della causa assoluti e indisponibili nella parola, oggetto e causa di cui l’entusiasmo e l’identificazione sono virtù. Vanamente l’invidia, il cui colmo è l’invidia di sé, tenta di cancellare l’identificazione: ne sortisce il rancore nella sua forma più insidiosa, magari sotto la coltre di un formale rispetto, di una conforme adesione in assenza di lealtà. Il rancore in tutta la sua sordità. Senza l’entusiasmo l’idea di morte dilaga, perché nulla ha valore, tutto è negato dal confronto con l’ideale, nel presupposto della conoscenza.

Senza l’identificazione, nessuna vendita e nessuna impresa e ognuno si assegna i confini che siano conformi alle sue idee, che pensa di potere correggere. Ma l’idea è incorreggibile dal soggetto, che la ignora e che ne viene travolto: questa è la fede non religiosa, l’operazione costruttiva, l’operazione non spirituale. Mentre lo spiritualismo religioso, anche quello laico o quello personale, è legame sociale, è l’idea che guida la relazione, in nome della relazione ideale, innanzi a cui ognuno si sente mancante. Ma nessun dio può stare in luogo dell’oggetto e della causa nella parola, che sono insituabili, che non hanno luogo. Come stupirsi se, con la tentata spiritualizzazione dell’entusiasmo, il romantico “sentimento oceanico” comporta il dilagare della malinconia, l’apparente venir meno della tensione e della direzione, il sentirsi bloccato dall’idea di fine del tempo e di fine di ogni cosa? L’entusiasmo come proprietà dell’oggetto e della causa non è la lotta del soggetto per un oggetto e per una causa, che vengono meno solo quando emerge la loro realtà spettrale, cioè dettata dal ghénos familiare e sociale.

L’entusiasmo è la condizione della tensione linguistica, dunque intellettuale, e del dispositivo di forza che la ricerca e l’impresa di ciascuno esigono. Questa tensione non affatica, non diventa pesante perché non deve sostenere l’entusiasmo, ma trova nell’entusiasmo, nell’identificazione come virtù dell’oggetto e della causa la sua condizione e la sua garanzia. A questa tensione senza páthos non si approssima l’impulso di cui parla Kant, ma la pulsione di Sigmund Freud, la forza di Leonardo da Vinci e la virtù di Niccolò Machiavelli.

La tensione è un’istanza costante, instancabile, indelebile. L’opposizione alla vita non riesce, nonostante l’invidia. Non si cancellano l’entusiasmo e la forza, l’esperienza e il dispositivo: dicendo, facendo, scrivendo, il gerundio in atto non ci affida al peso dell’arbitrio del pensiero, delle proprie idealità. Sentire la pressione? Sentire lo stress? Anche tentare di ridurre la sensazione a sentimento non vale a patologizzare la tensione, la tendenza irrefrenabile delle cose in direzione della qualità, del valore. Questa è la rivoluzione cifrematica. Questo è il valore della vita che i filosofi mancano, anche secondo Giacomo Leopardi, che nello Zibaldone scrive: “Ragione e vita sono due cose incompatibili”, e più oltre aggiunge: “La salvaguardia delle libertà delle nazioni non è la filosofia né la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo”.