FRANCESCO SABA SARDI, L’ARTE E LA TESTIMONIANZA CIVILE

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psicanalista, cifrante, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna

Dopo gli anni segnati dal Covid-19, mai come ora il turismo, nazionale e internazionale, sembra premiare le città d’arte e di cultura italiane, con un fatturato di decine di miliardi di euro, in netto aumento. Si parla così di turismo culturale, di turismo patrimoniale, di turismo artistico che proverebbero l’interesse degli abitanti del pianeta per la bellezza delle nostre città. Occorre dire, però che, in queste definizioni, l’arte, la cultura, la civiltà stessa sono spesso intesi come Kultur, come l’idea di civiltà, considerata patrimonio e insieme d’identità nazionali e collettive, se non come spirito di un popolo e di una nazione, di cui l’artista o lo scrittore sarebbero interpreti. Questa operazione di spiritualizzazione dell’arte e della cultura, che le inquadra in un sistema in cui l’apparato mediatico e telematico detta legge e valori, tende a escludere la cultura come invenzione e a considerare l’arte come trasgressione consentita: il riferimento a un testo fondatore e al principio d’autore le relega allo statuto di pratiche senza esperienza e senza scrittura dell’esperienza, funzionali all’uguale sociale e al conformismo di cui il sistema della conoscenza – il sapere universitario e la critica – è sacerdote e garante.

Tra i rari intellettuali che hanno svolto la loro ricerca e il loro fare in un’esperienza di scrittura che non si attiene a un sistema di riferimento, Francesco Saba Sardi, di cui è appena trascorso il centenario dalla nascita, ha dato prova, con la sua attività intersettoriale di traduttore, poeta e scrittore, di una precisione linguistica e di una lucidità intellettuale senza paragoni. Un’esperienza di parola e di scrittura civile testimoniata non tanto dall’onorificenza ricevuta dal Presidente della Repubblica per la sua opera di traduttore da sette lingue, quanto dalla sua dissidenza intellettuale, dalla sua scrittura eretica, che mette in questione i concetti di cultura, di arte e di civiltà, indicandone accezioni e contenuti inaspettati.

Nella sua vastissima produzione editoriale, ricordata negli interventi pubblicati in questa rivista, trova un posto importante una serie di pubblicazioni, edite fra il 2006 e il 2009, concernenti l’arte. Si tratta in particolare dei quattro libri della collana “L’arca. Pittura e scrittura”, pubblicati da Spirali, in cui ciascuna volta sono posti in adiacenza, più che a confronto, due artisti e le loro opere: il primo, edito nel 2006, ha come titolo Giambattista TiepoloeSalvatore D’Addario, poi nel 2007 sono usciti Pablo PicassoeAleksej Lazykin, Sofonisba AnguissolaeMary Palchetti, Artemisia GentileschieVincenzo Accame. A questi libri è seguita la prefazione del catalogo delle opere del pittore bolognese Alfonso Frasnedi, La galleria del tempo (Spirali).

Quando ho sentito parlare del progetto editoriale “L’arca” sono rimasto sorpreso. Avevo incontrato Saba Sardi la prima volta nel 1984, quando abbiamo presentato il suo romanzo Dottor Sottile (Spirali) a Bologna, al Palazzo dei Notai, poi l’ho rivisto spesso in vari convegni alla Villa San Carlo Borromeo di Senago. In questi eventi culturali e nelle nostre conversazioni lui aveva sempre considerato la critica d’arte come una branca del discorso contro la parola, la chiamava letteratura in contrapposizione alla scrittura, al punto da scrivere, a proposito di Vincenzo Accame: “L’arte non può fare comunella con la critica. Rischia di restare letteratura, di non approdare alla Scrittura. La quale non ha bisogno di grafismi. È semplicemente parola”. Come poteva questo scrittore adattarsi a fare il critico, a scrivere sulla scrittura, a operare sull’opera, a incasellarla in categorie estetiche, a definire l’arte e l’artista? Mi sembrava impossibile. Ma quando ho letto il primo di questi libri ho avuto una conferma, e non nel senso che aspettavo. Effettivamente, Saba Sardi scriveva: “Cosa sia l’artista lo lascio dire a quelli che sono in grado di dirlo, perché se ne intendono e io non so cosa sia esattamente e io non so di cosa esattamente si parli”. E la questione viene riproposta alla fine dello scritto per Artemisia Gentileschi; dopo aver scritto quaranta pagine bellissime, lo conclude così: “E io continuo a non sapere ‘che cosa sia’ l’arte”.

Com’è possibile, mi chiedevo, che costui scriva di arte e non ne sappia nulla? Sarebbe stato facile qualificarla civetteria. Eppure, non era la civetteria dell’ipocrita, il “so di non sapere” platonico così caro anche a Karl Popper. Con queste affermazioni Saba Sardi non faceva una boutade, ma ribadiva una tesi che spesso interviene nei suoi testi: la scrittura non deve occuparsi di dire l’essere, di dire che cos’è qualcosa. Per quello dice “Io non so che cos’è”: se io mi occupo di scrittura non posso entrare nel “che cos’è, nel ti estì”. È la letteratura che ci dice che cosa sono le cose, non la scrittura, in cui non c’è l’ontologia, non c’è l’essere. La scrittura, dice Saba Sardi, è l’invenzione di qualcosa, è fondazione, non è descrivere o sapere qualcosa. Ma in queste opere aggiunge anche una tesi specifica per l’approccio all’arte: non si può scrivere sull’arte, perché “L’arte è follia, non già sintassi esistenziale. Inutile ogni tentativo di concettualizzare la follia, inutile ogni sforzo inteso a definire, contestualizzare, storicizzare, classificare, valutare l’arte, anche se ci si prova a farlo con l’opera d’arte perché costa soldi. L’arte, infatti, è inutile, è un eccesso, non serve”. Quando lui dice che l’arte è follia, non avvalla la mitologia romantica secondo cui l’artista è pazzo o posseduto, ma indica che l’arte è quel che sfugge al funzionamento della macchina del mondo e al sapere di quella che chiama “l’onnifavola”. L’arte non è un sapere, non è un funzionamento, è un debordamento, è il cammino di una scrittura debordante, è un’articolazione eccentrica, che sfugge al centro ideale, al luogo ideale del potere.

Per questo Saba Sardi non scrive sulle opere, lui legge le opere, ne coglie l’emergenza di scrittura, aggiunge la sua scrittura – potremmo dire la sua pittura in parola – alla loro pittura. Non un sapere sull’opera troverete qui, ma un racconto a fianco dell’opera, un’adiacenza, il proseguimento della scrittura dell’opera perché la sua scrittura risulta infinita. E anche le innumerevoli opere d’arte pubblicate in questi libri partecipano alla scrittura. Scrive a proposito di Mary Palchetti: “Ma, cara la mia Sfinge, non vale piuttosto la pena di partire da un altro punto di vista, di riconoscere che tutto è Parola (…)? E che quindi è impossibile approdare al finito, all’infinito, al transfinito? Rassegnandoci piuttosto ad ammettere che nulla ‘sappiamo’. Che tutto ‘intuiamo’. Che tutto ‘inventiamo’. Che nulla può venire detto, tradotto, scritto, e tutto viene detto, tradotto, scritto. Che siamo ‘parlati’”.

Questa considerazione porta dunque a un altro approccio all’arte che l’autore del libro fa enunciare a Edipo, il quale nel racconto di Saba Sardi non si perita di rispondere all’indovinello, ma coglie l’occasione per instaurare una conversazione con la Sfinge. Dice Edipo: “L’immagine non ci riconduce mai al mondo, non fa che proporcene un oblio. Tanto vale riconoscerlo e sbarazzarsi di verismi o fotografismi e dei positivismi di ogni tipo. L’arte, te lo ricordo, non è di questo mondo. Vuoti di memoria, dunque, mia cara. E poi l’arte non è moderna né antica. Rilutta alla definizione. A dispetto di chiunque si provi a tradurla in termini concettuali.

SFINGE: E allora, a cosa serve?

EDIPO: A niente. È inutile. È un lusso. E proprio per questo è di importanza vitale. È solo illusorio il muro che separa il visibile dall’immaginario. La storia, mia buona Sfinge, esiste in quanto è stata dipinta. È la realtà soltanto in quanto detta”. “Sbarazzarsi di verismi, di fotografismi, di positivismi”: non sorprende che questo autore sia stato considerato eretico, inappropriato, anche inaccettabile dai salotti culturali milanesi (e non solo) e da gran parte dei media più o meno di regime, che d’altro canto lui non frequentava né stimava. Parlava di “prigione dell’asfissiante cultura, sapere, scienza. Degli dèi sovrani e dei sovrani dèi”. Ma aveva i suoi interlocutori, come l’editore Gian Giacomo Feltrinelli, come l’anti-psichiatra Thomas Szasz, come l’artista e intellettuale Vincenzo Accame, come l’editore e scrittore Armando Verdiglione, ai cui congressi interveniva costantemente, anche testimoniando dell’interesse della sua impresa culturale e artistica duramente colpita da attacchi giudiziari e penalpopulisti. Saba Sardi non poteva non cogliere la portata dell’invenzione di Verdiglione, di cui era interlocutore: la cifrematica come scienza della parola, i cui echi risuonano in pagine come questa, tratta dal libro Vincenzo Accame e Artemisia Gentileschi: “Eravamo, siamo Parola. Siamo nella Parola. Parola sono i nostri pensieri, che sono dialoghi con noi stessi; Parola i nostri gesti; Parola tutte le nostre forme di comunicazione interiore (con le varie “personalità” che ci compongono o scompongono), o esteriore, questa con una necessaria aggiunta di sintassi e grammatica; Parola la figurazione, i canti, le danze; Parola la scrittura (grafismi): Parola verbale, dipinta, recitata, eseguita, trasferita (tradotta), dal dialogo interiore alla ripulitura, correzione, revisione, per essere messa in commercio come rappresentazione figurata o gestuale, oppure parola verbale, insomma presentata in maniera accettabile agli altri a loro volta maschere dell’Alterità. Parola il ‘reale’”.

Tornando alla collana “L’arca”, potremo allora chiederci come mai Saba Sardi può accostare artisti così distanti come l’astratta e novecentesca Mary Palchetti e la ritrattista e cinquecentesca Sofonisba Anguisssola. La questione è che per lui l’arte non è né moderna né antica, non è astratta o figurativa, europea o africana. Queste, dice, sono categorie della critica, non dell’arte, che non è divisibile spazialmente o temporalmente, come accenna Gabriella Landini nel suo intervento in questo numero della rivista. Nessun progresso e nessuna evoluzione nell’arte, ma non perché l’arte spesso è sembrata tornare su se stessa (ogni tanto sembra tornare alla raffigurazione, alla riscoperta dei primitivi, pensiamo alle maschere di Picasso o alle isole incontaminate di Gauguin). “Penso che l’assegnazione di una qualifica all’arte – scrive nella citata prefazione del catalogo di Alfonso Frasnedi – (figurale, astratta… di tale o tal’altro valore), sia di spettanza del discorso anziché della poiesis, la quale ultima mi sembra essere cosa della parola – del mitico, della dimensione onirica e oniromorfa”. Nessun ritorno al buon selvaggio contrapposto al cattivo moderno. “L’arte”, scrive, “è sempre paleolitica. Sempre atemporale”. E ancora: “L’arte ‘non è storica’. Non è, ripeto, di questo mondo, il mondo dello Zeit fatto di ritmi artificiali, prescrittivi, produttivi. L’arte è sempre se stessa. Sempre inesistente, sempre tendente al vuoto”.

Certo, in Sofonisba Anguissola e Mary Palchetti, lui parla di tre fasi dell’arte (la fase di immagini, la fase della verosimiglianza e la fase dello spettacolo), che però, a mio parere, gli servono solo per indicare come, nell’apparente evolversi degli stili e soprattutto dell’approccio critico, l’arte, come un fiume carsico, viene inghiottita dai saperi dell’epoca, dalla scrittà, ma poi tende a insistere, proprio come quel che si sottrae, come scarto rispetto al funzionamento sociale, agli stilemi dell’epoca. E per quanto riguarda il “vuoto”, è importante precisare che questo vuoto non è il vuoto kenotico, non è lo svuotamento mistico, non è il vuoto che si riempie del nulla. Sempre a proposito di Frasnedi, Saba Sardi nota che, con il venir meno di allusioni e geometrie e dell’ordine del disegno – “falsariga ideologica, sostrato delle intenzioni eteronome, dunque anche del figurale” –, emerge nelle opere di Frasnedi e nella vera arte “l’esclusività del colore”. “Il colore”, prosegue, “non è lo spazio in cui viene collocato, non si inserisce in una successione, in un prima, un dopo, una serie di intermediazioni” – cioè, non c’è evoluzione del colore, impossibile fare una storia dell’arte sul colore – “quelli detti passaggi cromatici. Il colore è nel presente”, potremmo dire nell’atto, “e per ciò stesso è nel sempre. È ‘l’invento’, non il ‘fattuato’. È Parola, una delle rivelazioni della Parola a se stessa, che non è sorgente di parole, ma appunto rivelazione che si manifesta a se stessa. Per questo il colore è la pittura”. Potremmo dire che il colore è l’oggetto della pittura, è l’oggetto di cui scrive Caterina Giannelli nel suo testo. L’oggetto è il colore. Il colore della parola è l’oggetto dell’identificazione, l’identificazione che troviamo in un quadro, ma anche nell’atto di parola: quante volte un oratore sembra parlare in bianco e nero, o in grigio, come potesse togliere il colore della parola! E ancora: “Abbandonarsi, sich lassen, al colore comporta la rinuncia, la spontanea cesazione delle maschere che l’impostazione dei riferimenti ha sovrapposto alla nudità del poiéin. Tolte le quali resta la visione nella sua essenzialità e povertà, nel suo nulla e nel suo tutto, che è quanto dire il mitico”. Insomma, per Frasnedi, secondo Saba Sardi, il colore è quel vuoto che non è il nulla, perché è “invento”, non ritiro; è astrazione, non sparizione; è materia, non sostanza.

Cominciamo allora a intendere il perché di questa scommessa editoriale, perché proporre nello stesso libro insieme Tiepolo e D’Addario o, in particolare, Sofonisba e Palchetti. Non è questione di confronto di stili, di generi di pittura o di comunanza di sesso. È questione di arte, di arte che per entrambe le artiste è immediatamente scrittura, come occorre che sia. Sentiamolo dalle parole di Francesco: “Una cosa hanno in comune, e dovrebbe essere evidente a prima vista, ed è di somma incidenza: la pacatezza, la serenità che caratterizza entrambe le maniere, gli inevitabili stili. La sicurezza, l’imperturbabilità. La fedeltà al proprio assunto. Quanto sta al di là di arte intesa quale esperienza cognitiva: al di là dell’arte come sapere. L’immediatezza, indefinibile, dell’arte che non si limita a essere letteratura, ma è immediatamente scrittura. Parola che riconosce se stessa senza parodie”.

La “Parola che riconosce se stessa” è la parola in atto, la parola che non descrive l’atto. È la parola come vita, è l’atto di parola. Nessuna descrizione, nessuna definizione, nessun atto dell’atto, nessuna parola sulla parola: questa la constatazione della scienza della parola, della cifrematica. L’arte e la cultura non sono memoriali, non hanno riferimento fuori dell’atto, sono nell’esperienza in atto, senza bisogno di riferimenti fisici o metafisici. Non conoscono se stessi, non dipendono dalla conoscenza, innata o acquisita, dal riferimento al nulla che rende la vita mortale, corrotta, umbratile, spettrale: l’arte e la cultura non sono l’ombra davanti che rimanda a una realtà nascosta, misterica, in cui la paro[1]la è idealmente tolta dal suo atto, in cui l’esperienza è l’essere esperti secondo il modello iniziatico, che riduce la memoria a reminiscenza.

L’esperienza civile, l’esperienza in atto, l’esperienza della parola e della scrittura originarie non rimanda all’experimentum iniziatico, allo sperimentalismo, alla conoscenza dell’esperto. “Immediatezza della scrittura”, scriveva Saba Sardi, ovvero l’esperienza non è mediazione tra l’ignoto e il noto, tra il nascosto e il manifesto, tra il niente e l’essere.

L’esperienza è civile quando non è spirituale, gnostica, non serve alla conoscenza e alla coscienza sociale. Civile non è sinonimo di sociale, tanto meno di inclusivo: l’esperienza civile non ha nulla a che fare con il dovere sociale e con il riscatto sociale, ovvero con l’altruismo che, negato l’Altro, lo rende limitato, incapace, bisognoso. Con l’esperienza civile, l’esperienza in atto, l’arte non è funzionale all’experimentum come “portar-fuori” (Ernst Bloch), al divenire spirituale, ideale, nullista, utopico.

Civilis, civitas, città. La città non è utopica, non è sottoposta all’idea dell’avvenire, è città del tempo, del contingente, è città in atto. Città del tempo e città dell’Altro irrappresentabile, inconoscibile, immemoriale. L’esperienza ha da essere fedele alla memoria, alla città come mausoleo? La memoria non è reminiscenza o rimemorazione, è l’esperienza in atto, che trova nella cultura la sua tradizione e nell’arte il suo tradimento, senza conformismo e senza trasgressione, senza professione e senza confessione.

L’Altro ha il suo diritto e la sua ragione. La scrittura è civile quando si attiene a questo diritto e a questa ragione, è l’esperienza che si scrive attenendosi al diritto non giudiziario e alla ragione non di stato, che si attiene alla differenza e alla varietà, che giunge, attraverso la produzione e la vendita, alla comunicazione diplomatica. È la scrittura della cittadinanza planetaria, che non partecipa alla mondializzazione, allo scontro tra le Kulturen. Il totalitarismo non può nulla contro la parola: da cinquant’anni il Movimento cifrematico – di cui Saba Sardi è stato protagonista –, nel suo processo di valorizzazione dell’esperienza di parola, sta con gli scrittori iraniani, gli artisti russi, i profughi cubani, i poeti cinesi, i cittadini ucraini, con coloro che testimoniano e contribuiscono alla scrittura civile e alla cittadinanza planetaria.

In quanto aspetti dell’esperienza civile, l’arte e la cultura non si oppongono all’impresa, partecipano con essa alla struttura della parola e alla sua industria. Come indicano le testimonianze degli imprenditori in questo numero, le imprese danno prova di esperienza civile non soltanto con il loro bilancio sociale o il loro contributo al territorio: basandosi sul lavoro e sul commercio, sul rischio e sulla scommessa di riuscita, vivono delle loro arti e delle loro invenzioni da cui la nostra vita è intessuta. Ciascun giorno, nell’impresa, nessun elemento è mai lo stesso, nessun dispositivo è mai lo stesso: la memoria delle imprese non è il riferimento all’origine o a un fregio identitario, è la loro esperienza in atto, per cui non possono rifarsi a conoscenze acquisite, dunque a una mistica dell’azienda o allo spirito della nazione. Nessuno spirito dell’impresa, nessuna mente quantica dell’azienda: il processo linguistico narrativo di ciascuna impresa non è letterario, discorsivo, accademico, testimonia che l’esperienza civile non è l’idea di civiltà, è la scrittura della valorizzazione della vita, che non si lascia rinchiudere nella “prigione dell’asfissiante cultura, sapere, scienza. Degli dèi sovrani e dei sovrani dèi” (Francesco Saba Sardi).