L’EDUCAZIONE CIVILE

Qualifiche dell'autore: 
ricercatrice, presidente dell’Asilo Nido Giardino del tempo, Bologna

L’educazione secondo il discorso occidentale si basa sull’osservazione. Non a caso, la pedagogia raccomanda di “fare osservazione”. Dopo la mia tesi di laurea, dal titolo: Culture dei bambini nella prima infanzia. Un’esperienza di osservazione partecipante al nido, ho proseguito la mia ricerca esplorando le implicazioni del significante “osservazione”, mutuato dal metodo antropologico di fine Ottocento che si fondava sull’osservazione di varie etnie, delle cosiddette culture “primitive”. L’osservazione procede dalla classificazione stabilita sulla base di standard ideali. Ecco perché, in ambito pedagogico, la pratica dell’osservazione implica la compilazione di un modulo in cui annotare schemi comportamentali. Mi sono chiesta più volte in che misura chi è tenuto a fare pratica di osservazione non proceda a partire dalle proprie idee, oltre che da dati statistici, che deve confermare nella pratica. L’osservazione diventa quindi osservanza di precetti e idee costituite a partire dall’idea di uguale, dallo standard universale, oppure a partire dalle proprie rappresentazioni fondate su tale standard.

La questione è stata posta anche da alcuni antropologi, per esempio in occasione della stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nel 1948. In particolare, il presidente dell’Associazione degli Antropologi Americani, Melville Jean Herskovits, aveva messo in guardia dal dichiarare tutte le culture uguali, secondo lo standard universale, perché, se dovessimo rispettare tutte le culture, allora bisognerebbe rispettare anche quella di Hitler. Herskovits poneva la questione: come dichiarare i diritti uguali, senza il rischio di una lettura etnocentrica di tali diritti? Come tenere conto anche della molteplicità dei costumi e delle culture nell’organizzazione della vita e della società? La sua obiezione rispetto al concetto di universalità della dimensione culturale che accomunerebbe tutti gli uomini era dovuta alla grande variabilità delle cosiddette culture, così come delle cosiddette strutture psichiche o mentali. Il suo intervento non fu accolto e Herskovits si dimise dall’incarico di presidente dell’Associazione.

Nell’antropologia era intervenuta anche un’altra questione. Se il suo oggetto di studio erano le popolazioni “primitive”, nella metà del Novecento, quando esse erano state già tutte identificate minuziosamente, qual era il suo compito? La risposta fu: lo studio delle “nostre” culture. Siamo passati dall’osservazione delle culture primitive all’osservazione dei “primitivi” dell’uomo, i bambini, classificandoli in categorie, secondo parametri che segnano le deficienze rispetto allo standard. Credo che nella storia dell’uomo non sia mai esistito un così alto livello di deficit di varia natura diagnosticati in età infantile. Il risultato è che oggi i bambini sono facilmente catalogati sulla base dell’idea di uguale – i bambini sono definiti come “pari” –, sulla base dello standard che, quando non è confermato, diventa segno di una patologia. Non è forse per questa via che la differenziazione per categorie patologiche oggi entra negli asili nido, nelle scuole, nelle imprese e in tutte le strutture in cui si svolgono le età della vita? L’esperienza di ciascun bambino è schedata a partire dal concetto di patologia. Così, per esempio, accade d’incontrare una mamma che si rivolge all’educatrice chiamando il figlio non per nome, ma con l’acronimo della categoria del deficit a lui diagnosticato. Il problema è che il figlio non sa fare i calcoli. Ma questo bambino è iscritto alla scuola elementare.

Ulteriori effetti della mentalità della catalogazione sulla base dello standard universale sono constatabili anche nelle richieste di alcuni bambini. È accaduto, per esempio, che un bambino abbia chiesto ripetutamente all’educatore: “Cosa devo fare?”, benché avesse la possibilità di fare, di giocare anche con altri bambini dell’asilo nido. Noi non abbiamo mai assegnato un posto a nessuno: i bambini arrivano, si siedono e fanno le cose che secondo loro occorre fare. La richiesta insisteva su quale comportamento il bambino dovesse assumere. Questo bambino è già nella logica della prescrizione e della proibizione secondo lo standard. In effetti, spesso l’educazione è intesa come ideale, come la trasmissione di precetti, di proibizioni e prescrizioni, sulla base di pregiudizi e di schemi comportamentali cui il bambino dovrebbe attenersi. Forse questo bambino è stato abituato in famiglia ad attendere la risposta su cosa debba fare. Ma non è rispondendo che il bambino trova il suo modo. Per procedere, allora, noi chiediamo: “Secondo te cosa occorre fare? Cosa è urgente? Cosa possiamo fare insieme, adesso?”. Se gli diamo la risposta, noi impediamo il processo d’invenzione che gli consentirà di fare mille altre cose. Cosa si dice di un bambino che fa quanto gli viene prescritto di fare? Che è ubbidiente. L’educazione intesa come precetto fa rima con ubbidienza.

Compito dell’educatore è creare le condizioni perché il bambino articoli il suo modo proprio attraverso la parola – anche il gesto è parola –, attraverso il fare. Allora, non si tratta di significare la parola o il fare, per inscriverli nel canone, come nota Fernand Deligny nel libro I bambini. I loro atti. I loro gesti. Esistono bambini mutacici, autistici, afasici? (Spirali). È essenziale che il bambino sia lasciato libero di fare e di condurre la propria ricerca. Stabilendo le condizioni per questa libertà non c’è più standard universale, non c’è più catalogazione patologica, non c’è più razzismo.

L’educazione civile, più che civica, è il dispositivo pragmatico da instaurare con i bambini, dispositivo dell’accoglienza e del racconto e anche dispositivo della comunicazione, attraverso la lingua del fare, la lingua con cui le cose si intendono. La nostra scommessa con i bambini è la scommessa della parola, che procede dalla questione aperta e trae ciascuno nel viaggio verso la qualità.