CHE COSA QUALIFICA UN’IMPRESA COME ESPERIENZA CIVILE

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presidente di TEC Eurolab, Campogalliano (MO), di ALPI e di EUROLAB

Fin dalla sua fondazione, nel 1990, TEC Eurolab ha sempre dato un contributo alla civiltà, non soltanto offrendo i servizi più innovativi di testing dei materiali alle industrie dei settori aerospaziale, aeronautico, automotive, biomedicale e meccanico, ma anche alimentando in modo costante le occasioni di parola con i collaboratori, i clienti, i fornitori, i rappresentanti degli enti locali, i consulenti, gli esperti, gli economisti e gli autori che ha invitato a discutere dei loro libri. Per non parlare delle attività associative in cui lei è impegnato, come Alpi e Eurolab, di cui attualmente è presidente, o l’Associazione per l’RSI di Modena e l’ITS, di cui TEC Eurolab è tra i fondatori.

Che cos’altro può qualificare un’impresa come esperienza civile?

La parola “civile” deriva da civis, cittadino, da cui civitas, città. Per questo possiamo dire che l’impresa è un’esperienza civile nella misura in cui essa è, a suo modo, una “città”, non una monade chiusa in se stessa, una sorta di scatola nera in cui entrano e da cui escono cose, per esempio, entrano materie prime ed escono prodotti finiti, ma un’organizzazione che si confronta costantemente con clienti, fornitori, esponenti di enti pubblici locali e nazionali e vari stakeholders nel territorio in cui opera. E pensiamo anche a quanti agganci con l’esterno mantiene un’impresa attraverso ciascun collaboratore, che porta all’interno elementi del contesto in cui vive, e viceversa. Lo scambio fra l’impresa e l’esterno è talmente articolato che distinguiamo fra la politica nell’impresa, ciò che decide di fare al proprio interno, la politica per l’impresa – quella che adotta il governo nazionale o locale, per esempio, andando a stabilire le regole, le tassazioni e tutto ciò che costituisce il quadro normativo entro cui l’impresa può operare – e la politica dell’impresa, ovvero la cultura d’impresa che comprende anche tutto ciò che ciascuna azienda restituisce alla comunità.

A questo proposito, durante uno degli incontri di scienza della parola in TEC Eurolab (27 aprile 2023), lei ha citato l’esempio di Adriano Olivetti…

Infatti. Purtroppo, però, le iniziative di Adriano Olivetti non si sono trasformate in cultura d’impresa e quindi non sono risultate trasmissibili in altri contesti, se non in pochi casi e in tempi molto più recenti. Questo perché nessuno ha colto che alla base di tutto ciò che i collabora[1]tori ricevevano come benefit – l’asilo nido, la mensa, l’emeroteca, l’infermeria e l’assistenza medica – c’era un’idea ben precisa e i servizi che venivano offerti erano strumenti per realizzarla.

E qual era l’idea di Olivetti?

Era un’idea rivoluzionaria, tanto che veniva isolato anche all’interno della propria famiglia, ma soprattutto dall’imprenditoria del tempo, e non solo, dai sindacati, dal governo e dai poteri finanziari. Era talmente isolato dalla finanza che, alla sua scomparsa, il buon Cuccia di Mediobanca si è affrettato a fare polpette e spezzatino dell’Olivetti, vendendo prima di tutto proprio la divisione elettronica, quella in cui era stato inventato il primo personal computer al mondo, una tecnologia che da quel momento ha varcato l’oceano, è arrivata negli Stati Uniti e ciò che è seguito è sotto gli occhi di tutti. Ma qual era questa idea così rivoluzionaria? Era quella di ricongiungere il lavoro con la vita, una cosa straordinaria: far sì che il lavoro avesse lo spirito, la bellezza, l’entusiasmo, l’intraprendenza che caratterizzano la vita quando non si è al lavoro. Separare la vita dal lavoro è stato un bel regalo che ci hanno consegnato i filosofi greci, distinguendo la poiesis dalla praxis, perché ritenevano il lavoro un’attività poco nobilitante che potevano svolgere soltanto gli schiavi o al massimo gli artisti per realizzare cose belle, e tuttavia le opere non andavano a valorizzare l’artista, che era considerato comunque un lavoratore, quasi uno schiavo, forse di un livello leggermente superiore.

Che cosa vuol dire ricongiungere il lavoro con la vita?

Vuol dire che il lavoro non può essere in contrasto, in alternativa o in contrapposizione alla vita: o lavoro o curo la mia famiglia, o lavoro o studio, o lavoro o vivo. Chi segue questo approccio di alternativa esclusiva ha bisogno di trovare il bilanciamento tra il tempo del lavoro e il tempo della vita (il famoso work-life balance), perché quando è al lavoro non vive e ha praticamente venduto le sue ore di vita a qualcuno che gliele paga, mentre quando è fuori dal lavoro è finalmente libero e può vivere.

Adriano Olivetti cercava di rimettere insieme i vari aspetti della vita: mangiare insieme, lavorare insieme, leggere insieme, frequentare insieme attività culturali come quelle che l’azienda organizzava nel Salone dei Duemila ogni quindici giorni, con l’intervento di un intellettuale o un artista o un musicista o un divo del cinema, che ciascun collaboratore poteva ascoltare e incontrare. Sempre per portare la vita all’interno dell’azienda, quando è stato necessario ampliare gli edifici in seguito alla sua rapida crescita, l’Olivetti si è trasformata nella “fabbrica di vetro”, per cui ciò che accadeva fuori poteva essere visto da dentro e viceversa, dando prova tangibile di come armonizzare i luoghi di produzione nella comunità del Canavese. Ma Adriano andava molto oltre perché portava la fabbrica dove c’era la vita: siccome quasi tutte le persone all’epoca svolgevano un doppio lavoro, continuando a coltivare i campi e ad allevare gli animali, quando si è trattato di aumentare in modo esponenziale la produzione della Lettera 22, ha costruito una fabbrica nel paesino da cui proveniva la maggior parte della forza lavoro, ad Agliè, in modo che gli operai fossero agevolati nello svolgimento di entrambe le attività. Ma pensiamo ancora alla mensa aziendale, uno dei migliori esempi di scambio fra architettura e paesaggio. La struttura esagonale dell’edificio ospitava diverse funzioni: dallo spazio mensa a quello per la lettura di giornali e riviste messe a disposizione dall’azienda.

Chiaramente, non tutto era perfetto, ma quanto poteva essere rivoluzionaria questa organizzazione rispetto a ciò che accadeva a soli pochi chilometri di distanza, a Torino, nella Fiat gestita da Vittorio Valletta, dove, se un operaio veniva trovato in un reparto che non era il proprio, anche se era adiacente, veniva licenziato in tronco? Lì vigeva la chiusura più totale: “Tu stai nel tuo recinto e fai quello che devi fare”. Altro che comunione tra fabbrica e città. Eppure, a causa della sua idea, Olivetti era isolato da tutti, persino dai sindacati, che trovavano nella contrapposizione, nella lotta di classe la propria ragion d’essere.

Certo, per realizzare questa bellissima idea erano indispensabili gli strumenti, soprattutto finanziari, di cui c’era disponibilità grazie a una grandissima marginalità: avendo conquistato il 30% del mercato mondiale e il 70% di quello italiano, fiumi di denaro entravano in azienda e venivano investiti nell’ampliamento delle linee produttive e nella costruzione di grandi stabilimenti in diverse parti d’Italia. Quello di Pozzuoli, per esempio, ha fatto la storia, perché è stato costruito in controtendenza. In un momento storico in cui i treni scaricavano vagonate di lavoratori che venivano dal Sud al Nord per lavorare nelle fabbriche automobilistiche, e non solo, lui invece ha costruito una fabbrica a Pozzuoli. E che fabbrica: di fronte al golfo “più singolare del mondo”, come lo definì il giorno dell’inaugurazione nel 1955, doveva arricchire il paesaggio, non deturparlo.

Quindi, ecco di cosa è capace un’idea. Tuttavia, anche l’idea più bella, se non ha gli strumenti e le risorse per essere realizzata, non vale nulla. Oltre alla disponibilità finanziaria, ha bisogno di una grande collaborazione all’interno dell’impresa, e la collaborazione è accelerata o frenata dalla presenza o dall’assenza del feedback, di quel riscontro che in pratica è parola, è interlocuzione. Se non abbiamo riscontri rispetto alle nostre azioni, tutto diventa più difficile. Ecco perché la cultura d’impresa non può prescindere dallo scambio, dai dispositivi della parola, quindi dalla messa in comunione e in discussione delle idee, senza cui non può esserci cultura d’impresa, ma tutt’al più cultura tecnica specifica.

Anche per promuovere la cultura d’impresa lei ha scritto il libro La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa (Spirali), che sta dando belle occasioni di dibattito in varie città…

I libri sono strumenti essenziali per la crescita del nostro capitale intellettuale e per fare in modo che la cultura d’impresa sia tramandata e coinvolga tante aziende, che divengono promotrici a loro volta di altre iniziative. Se gli imprenditori riuscissero in questo compito, allora, sarebbero veri rivoluzionari, anzi, “evoluzionari”, perché si tratterebbe di una grande evoluzione dell’uomo e della vita dell’uomo, insieme alla vita del lavoro. E la scienza della parola può dare un apporto affinché questa idea possa trasformarsi in vantaggio per la comunità, che non avrebbe più bisogno della separazione fra interno ed esterno dell’azienda.