UNA SORTA DI MEMORIALE DEL NOVECENTO

Qualifiche dell'autore: 
poeta, scrittore, drammaturgo

Il libro La necessità dell’anatomia (Spirali) raccoglie, oltre alle fotografie di Viviana Nicodemo, un poemetto di Mariella De Santis, brevi commenti poetici di Tullio De Rui e una micro antologia di Milo De Angelis, che parte da Somiglianze, il suo primo libro, e passa per altri testi, fino al recente Tema dell’addio del 2005.

Non vorrei insistere tanto sul tema dell’anatomia, di cui hanno già parlato i relatori che mi hanno preceduto, ma vorrei fare una cosa che di solito non faccio durante una presentazione, leggere cioè un mio testo di poesia, allo scopo di testimoniare, se non proprio un contrasto, almeno un punto di differenza. La sezione s’intitola L’esistenza delle donne, pubblicata nel libro Danny Rose (1989): “La casa delle donne ha il colore del vetro // le smagliature sono capovolte ed esatte, // quel luogo è circondato da finestre improvvise e furiosi sorrisi // a quegli oblò che // danno sulla strada manca solo l’apertura del giorno. // L’abitante attratto da ogni voce si tinge d’aria sognante // con quel canto di chierici che sfalda specie umane tra ombre e distinzioni. // La presenza delle donne è trascorsa // assieme ai temporali, intermittente, con // consonanze affettive che si dilatano sin dall’inizio del mondo”.

È una mia immaginazione su una casa abitata da donne. Mi è ritornata in mente leggendo la prefazione di Marco Tagliaferro. Per differenza, la mia casa delle donne è abitata da donne ariose e anche un po’ strane. Anche nel mio testo non sono presenti né la sessualità né l’erotismo. Eppure mi chiedo se l’occhio che s’impossessa dell’immagine non compia già un atto di erotismo. Nei riguardi di un’immagine dove l’erotismo è assenza, in breve, mi domando, non senza malizia, se non si tratti di uno sguardo che ha un surplus di erotismo. Nel senso che questa assenza vive sul corpo di una donna e questa linea che esclude altro non sia se non una doppia inclusione.

La prefazione di Armando Verdiglione solleva le immagini da ogni interpretazione possibile, giungendo quasi a negare che esista un’immagine. Gli scritti poi di Gabriela Fantato e del già citato Marco Tagliaferro evidenziano come nel rapporto tra interno e esterno esista una contraddizione. “Come altri artisti centrali nel dibattito estetico contemporaneo – si dice della Nicodemo – il suo lavoro è su due fronti. Ricerca di una statica astrazione, priva di emotività e partecipazione, e contemporaneamente, constatazione dell’impossibilità di far perdurare questa fissità”. Mi soffermerei su quest’ultima frase: l’“impossibilità di far perdurare questa fissità”. Se questa fissità non può perdurare, si è costretti a passare ad uno stadio emotivo che provoca una caduta rispetto al controllo estetico di una statica astrazione (che esisteva in un primo momento). Proprio per questo il rapporto tra fotografia e poesia è interessante e ricco di sorprese. Nel passato si era cominciato a esplorarlo. Questo libro riprende una dimensione che forse era stata un po’ dimenticata. Mi è capitato di assistere a spettacoli dove le poesie erano illustrate con coreografie di ballerini e non sempre ho trovato che i contrasti fossero sbagliati, anzi, più di una volta, sottolineavano il testo proprio grazie a una differenza che evidentemente era solo apparente. La stessa cosa penso si possa dire del rapporto tra fotografia e poesia, a volte c’è una specie di comunicazione differenziata che si risolve in un felice contrasto. Dietro ogni fotografia esiste una memoria figurativa, volontaria o non volontaria che sia. Questa memoria si fissa all’interno dell’immagine e in qualche modo la sospinge, la riempie di energie. Milo De Angelis ha citato alcuni nomi, a me ne sono venuti altri: per esempio, i lampioni mi hanno fatto ricordare alcune foto di Man Ray; la donna distesa sul tavolo può far venire in mente un Gesù Cristo di Salvador Dalì. Ma la figura che mi ha colpito è proprio quella di pagina 36, in cui una donna all’interno di una casa è circondata da un cerchio e guarda verso l’alto. Un’immagine sicuramente cinematografica e di grande effetto.

La sequenza finale – che parte dall’immagine della donna che scrive su se stessa fino ad arrivare alla serie di foto che hanno per tema il vestito – stabilisce un itinerario di significazione. Questo itinerario comprende anche l’ultima foto, dove la donna scende una scala che suppongo possa essere quella della finta piscina in cui era fissata nell’immobilità, illuminata dalla luce, chiusa da un rettangolo di ferro. Penso che le immagini del testo e i testi poetici che le accompagnano e divergono possano anche essere considerate come un memoriale del novecento e della cultura novecentesca. Questo discorso è meno astratto di quanto si potrebbe credere. È la poesia, difatti, che trova spazio e necessità per correlarsi con queste immagini. Correlazione che non è integrazione forzata, quasi una “colonizzazione” delle immagini, ma di contrasto, per dir così, sul divenire dello sguardo. In ogni caso l’indicazione di correlato oggettivo viene qui inteso in un senso appena diverso da quello che intendeva Eliot. Ci sono anche le scale, non possono non esserci, in una casa abbandonata, scale misteriose che non portano da nessuna parte, come i sentieri interrotti di Heidegger. Le scale fanno parte di un vasto patrimonio artistico: Boccioni dipinge scale circolari che si sollevano e che possono anche far ricordare le scale del campanile della chiesa del film di Hitchcock La donna che visse due volte.

Da un punto di vista figurativo e poetico, mi preme sottolineare la relazione non forzosa degli oggetti e delle cose, la loro funzione spostata verso una specie di storia raccontata attraverso la non storia. In questo senso, si può anche pensare: una poesia di avanguardia altro non è che un testo normale dal quale sono state espunte alcune parole e soprattutto i nessi dimostrativi. Lo scheletro del testo, però, quello che potremmo chiamare il sottotesto, insiste maledettamente e persiste anche in questo tentativo di stravolgere il linguaggio e di raccontare delle non storie. Questa operazione riesce, anche contro la volontà del decostruttore, perché passa inevitabilmente attraverso un terreno immaginario, che potrebbe anche costituirsi come humus collettivo. Siamo di fronte al non detto, all’indicibile, all’ineffabile, le cui lingue, pur non esistendo e pur essendo difficilmente praticabili, hanno uno statuto di esistenza, si direbbe per definizione.

E a questi linguaggi, a queste essenze aeree e sperdute nell’area della significazione, noi, poveri critici, dobbiamo in qualche modo dare parola.